martedì 22 dicembre 2009

Capitolo 45 Trionfo di sapori

Vincendo la naturale diffidenza che i chirotteri ispirano alle donne di ogni età, ceto e provenienza, ci avviciniamo per studiare meglio lo strano connubio fra le piante secolari e questi notturni insettivori. In effetti il matrimonio pare non sia dei più felici: i pipistrelli hanno avuto inizialmente A questa meritoria azione ha fatto seguito uno spiacevole imprevisto, dovuto ad un'altra loro funzione, primaria e quanto mai necessaria..quella digestiva!

Streching my wings.. Anche per occhi poco esperti è impossibile non notare che il guano, prodotto in notevoli quantità dalle volpi volanti, sta arrecando danni gravissimi alle piante che li ospitano. Gran parte delle cime degli alberi appare infatti completamente spoglia e priva di foglie, un problema che i gestori del orto botanico probabilmente non avevano preso in considerazione al momento di concedere la cittadinanza del parco ai chirotteri un impatto più che positivo, per la loro funzione di impollinatori. Come se avessero capito che siamo troppo interessati a loro, i pipistrelli iniziano a mostrare segni di insofferenza e a lasciare i loro comodi giacigli. Del resto il sole si accinge a tramontare, è tempo di lasciare libero il loro territorio, e di andare pure noi a procacciarci del cibo. Ieri avevamo girato per i docks alla ricerca di un posticino carino per la nostra prima cena a Sydney. Si era optato per un ristorante tipico di queste parti, il “Bella Roma”. Di solito non ci lasciamo attrarre dalle lusinghe della cucina italiana quando siamo fuori dai nostri confini nazionali, ma il posto era oggettivamente interessante, aveva un tavolino libero sul patio esterno, particolare che nelle afose serate di Sydney non è da sottovalutare, e soprattutto la cameriera che ci ha tirato dentro per la giacchetta era il classico tipo al quale non è possibile dire di no.L' importante in questi casi è non farsi attrarre dalle lusinghe della nostalgia per i propri sapori natali, e mantenere un basso profilo, nel nostro caso ordinare qualcosa di non tipicamente italiano. Una saggia linea di comportamento che il cappellone oriundo nel tavolo di fianco al nostro decide di non seguire, e così, mentre si pavoneggia con la sua compagna di tavolo delle sue lontane origini penisolari, gli tocca sorbirsi la versione più annacquata e brodosa delle lasagne alla bolognese che abbia mai visto. Salmone per Barbara, bistecca per il sottoscritto. A posto così.

Oggi invece facciamo uno strappo alla regola e ci lasciamo attrarre dalla pizzeria sotto al nostro hotel. Oddio, rispetto alla simil-cartonata-surgelata che ci hanno propinato ad Adelaide, il prodotto che abbiamo degustato assomigliava assai di più al nostro piatto tradizionale. Il rovescio della medaglia è rappresentato dalla location: il patio esterno è tutto esaurito, quindi ci sbattono su di un tavolino interno, a ridosso del forno, un caldo orrendo che ci toglie qualsiasi desiderio di cibo e di baldoria. Usciamo a rivedere le stelle con malcelato sollievo.

mercoledì 25 novembre 2009

Capitolo 44 I fantasmi dell’ Opera House

Dopo questa clamorosa figuraccia sentiamo la necessità di tuffarci in mezzo alla folla per mimetizzarci. Facciamo una rilassante passeggiata sulla promenade che porta all’ Opera House, per dar modo alle nostre guance di perdere il rossore diffuso. Un salto all’interno di questo celebre teatro ci permette di ammirarne l’avveniristica architettura, che peraltro non capiamo, e di apprezzarne il programma artistico dei prossimi giorni. Ovviamente nelle due serate che passiamo in città in cartellone è previsto un’entusiasmante novena natalizia, bambini vestiti da renne ed elfi riuniti in un coro di voci bianche raccapriccianti con contorno di buoni sentimenti. Se David Byrne non avesse avuto il cattivo gusto di performare giusto pochi giorni dopo la mia partenza, avrei reagito con sportività maggiore rispetto a quanto non ho effettivamente fatto.

Ma siamo in viaggio di nozze, siamo in Australia, il tempo è splendido e tutto va bene. Non ci facciamo certo indisporre da un cameriere troppo intraprendente, o dalla mancata coincidenza fra i miei impegni e quelli di un genio della musica. Alle spalle dell’ Opera House troviamo i Royal Botanic Gardens, una chiazza di verde intenso che declina verso il blu della baia senza darci l’opportunità di non visitarla. Questo immenso parco offre un perfetto connubio fra le molteplici specie animali che qui dimorano, i numerosi bipedi che qui ricercano pace e tranquillità dal logorio della vita moderna e le varie specie di alberi secolari che gettano un'ombra rinfrancante a beneficio di entrambe. Nel nostro incedere fra i vari sentieri dobbiamo fare attenzione a non investire varie intere famiglie di anatre intente ad insegnare ai propri pargoli l’attraversamento di carreggiata. Scegliamo una comoda panchina, è tempo di estrarre la reflex e catturare

qualche momento per le lunghe serate invernali che troveremo al ritorno.

Yellow-crested Cockatoo al pascolo

Un albero attrae uno stormo di pappagalli variopinti e chiassosissimi. Una famiglia di gallinelle d’acqua intenta a costruirsi il nido presso una fontana. Un paio di candidi kakatua che brucano l’erba più o meno serenamente. Pazzesco. In pratica questo buffo e incazzosissimo pappagallino sceglie un filo d’erba e tenta strapparlo col becco. Non riuscendoci al primo tentativo si aiuta con una zampa, creando ridicole coreografie nel tentativo, spesso vano, di eseguire lo strappo senza perdere l’equilibrio. Ogni fiasco e conseguente caduta è accompagnato dall’equivalente aviario delle bestemmie da carrettiere, nella fattispecie dispiego della cresta gialla, sbattere di piume e poderosi schiamazzi a tutto becco.

A pochi metri da noi un gruppetto di studentesse è intento a fare capriole, incuranti del fatto che la divisa scolastica imponga loro la gonna. Attorno a loro vari gruppetti di sfaccendati, ognuno in qualche modo intento a non far capire il reale motivo della propria permanenza nelle vicinanze. Appena le ragazze cessano la loro ginnastica e se ne vanno, il prato si svuota. Procediamo all’interno del parco e visitiamo la parte dedicata al Giardino Botanico. Ci assale un odoraccio inequivocabile, praticamente in contemporanea con la consapevolezza che ciò che stiamo calpestando non è più semplice asfalto ma un orrendo miscuglio di guano, terriccio e foglie. Sui rami di alberi secolari e preziosissimi hanno trovato rifugio a centinaia gli indiscussi padroni del parco, uno stormo di “Grey Headed Flying Foxes”, in pratica enormi pipistrelli dalla testa vagamente simile a quella della volpe e dall’ imbarazzante apertura alare. Il cartello all’ingresso del parco ci avvertiva del fatto che la chiusura dei cancelli è fissata, per motivi di sicurezza, alle ore 20. Ingenuamente abbiamo pensato che tutto il mondo fosse paese, e che il parco di notte divenisse insicuro e territorio privilegiato di malfattori e malintenzionati. Non è così. Semplicemente al calar della sera queste simpatiche bestiole si levano in volo e iniziano i loro consueti giretti, per impollinare o procacciarsi il cibo, e rimanere nei paraggi in questi momenti non è troppo divertente.

Capitolo 43 XXX

Questa è una parte imbarazzante. A luci rosse, o quasi. D’altronde è il resoconto di un viaggio di nozze, una parte piccante dovevate pure aspettarvela. Ok, mettete a nanna i bimbi che andiamo ad incominciare.

Succede tutto nel pomeriggio. Dopo l’assalto al mercatino rionale e la meravigliosa crociera sulla baia. Ci siamo trovati sul molo con negli occhi ancora pieni delle meravigliose immagini della città che si affaccia sul mare, nonchè le mani piene di pacchi e pacchettini per lo shopping natalizio mattutino. A quel punto decidiamo di riportare la mercanzia in albergo, dato che la distanza che ci separa da quest’ultimo è molto breve, in modo da riottenere la libertà degli arti per il pomeriggio che segue. Entriamo in camera per quella che nelle intenzioni doveva essere una sosta breve e veniamo colti da una “stanchezza subitanea e imprevedibile” , che ci spinge verso la branda senza ammettere discussione alcuna. In effetti il nostro ritmo sino a quel momento era stato assolutamente da primato per quanto riguarda spostamenti e concessioni al riposo, e la mia natura di bradipo urlava già da qualche giorno, soprattutto dopo la levataccia per assistere all’alba nel deserto. Insomma, una veloce pennichella pomeridiana cullati dai rumori del mare, che si insinuano piacevolmente fra le imposte sulle ali di una fresca brezza….priceless!

E fin qui tutto bene, niente di scandaloso, direi. Il problema è che avremmo fatto decisamente a meno di quanto è successo poi. Con la scusa che eravamo entrati in camera solo per appoggiare i pacchetti abbiamo colpevolmente omesso di apporre alla porta d’ingresso il pratico cartellino che invita a non disturbare. Decisamente un errore. Neanche a farlo apposta io e la mia signora ci svegliamo di buon umore dopo la rinfrancante siesta, e decidiamo di rubare un altro po’ di tempo alla visita della città. Ma nel bel mezzo del nostro intrattenerci ci piomba nella stanza un solerte cameriere deciso ad ispezionare la regolarità del nostro frigobar. Bussa in maniera non troppo convinta ed entra col passepartout, immaginando di non trovare nessuno. Per nostra fortuna fra camera e porta d’ingresso c’è un corridoio cieco entro quale le nostre urla di sdegno lo bloccano, mentre voliamo discinti nel piccolo ma pratico bagno. Non pago di averci inflitto già un umiliante interruzione, il ragazzotto proprio non accenna ad andarsene senza prima aver svolto il compito per il quale è entrato, e a nulla sembrano servire le nostre vibranti proteste da dietro la provvidenziale porta dei servizi. Per uscire dalla situazione di stallo Barbara mi incoraggia ad essere uomo, e ad uscire ad affrontare lo sbarbatello con le nudità nascoste da un asciugamano. Le faccio rispettosamente notare che, nelle mie condizioni, un asciugamano tenderebbe più ad accentuare il problema che non risolverlo.

La necessità, e il crescente disagio, rendono il mio inglese molto più convincente, o forse lo diventa solo il tono con cui le parole mi escono, fatto è che l’importuno cameriere accetta a malincuore di attendere fuori dalla stanza che noi ci si rimetta in ordine. Indosso dei vestiti a casaccio e lo faccio entrare a controllare il suo dannatissimo frigo, fra sorrisini imbarazzati da ambo le parti, e la ridicola presenza di mia moglie barricata nel bagno. Inutile dire che il cameriere è stato lo stesso che per tutta la durata del nostro soggiorno ci ha servito la colazione al mattino. Quindi la quinta cosa da fare assolutamente a Sydney non può che essere

5. Ricordarsi di appendere il Do not disturb alla porta!

martedì 15 settembre 2009

Capitolo 42 E cinque cose da fare ASSOLUTAMENTE a Sydney part 3

4. Fare dello shopping mirato

Dopo tanti giorni spensierati giunge alfine il momento di iniziare a pensare a quel che ti attende quando farai ritorno. E’ blasfemia dover pensare a tutto ciò mentre sei ancora immerso nell’atmosfera gioiosa della metropoli, ma quando a casa ti attendono orde di parenti e amici famelici di souvenirs e regalini vari, organizzare una giornata di shopping mirato è assolutamente necessario. Per mia fortuna la donna che ho sposato è cintura nera di organizzazione, sia che si tratti di gestire un viaggio di nozze dall’altra parte del mondo, sia che la missione sia far coincidere l’esplorazione della città con una puntata nei negozi che sembrano interessanti. E’ per questo che di Sydney porterò sempre con me le immagini della baia, della splendida Opera House, del Harbour Bridge, dell’acquario e dei superbi centri commerciali!

Sydney

Fra i regali che devo assolutamente recuperare spicca la curiosa richiesta di un amico. “Sei in una terra ricca di tradizione rugbystica. Vedi se riesci a procurarti la maglietta n.7 dei Cruzeiros, ci terrei molto!” E io, da bravo bambino giro per la città fermandomi ad ogni negozio sportivo. In uno di questi trasmettono in differita una partita della Roma. Sono lontano dalle vicende sportive del mio paese da due settimane, e qui addirittura mi fanno vedere la Magica! Tergiverso con maglie, felpe e cappellini per una mezz’ora buona, facendo la disperazione di commessi e moglie, solo per riuscire a vedermi la fine del match, rischiando di scoprire il mio gioco esultando smodatamente quando, al novantesimo passato, i giallorossi segnano il gol della vittoria. Ma se con il calcio ho fortuna, con il rugby sembra non esserci trippa per gatti. E sì che in esposizione ci sono maglie di club di ogni genere, misura e disciplina sportiva. Ma quando chiedo la maglietta dei cruzeiros i commessi scrollano le spalle e se ne vanno seccati. Ingenuamente credo sia orgoglio, cioè probabilmente a loro non sta bene che nei loro bellissimi e fornitissimi negozi sportivi arrivi un italiano e chieda giusto l’unica maglia che non hanno, quindi se ne vanno perché sono troppo educati per mandarmi a remare in modo inequivocabile. Poi finalmente, arrivato al decimo negozio, un commesso si fa coraggio e mi spiega che non tengono le maglie delle squadre straniere.

Cioè…io ho girato per la capitale (di fatto!) australiana chiedendo la maglietta di una squadra neozelandese. Anzi peggio. Io chiedevo a gran voce la maglietta del capitano della nazionale neozelandese nei negozi del centro di Sydney. Un po’ come recarsi a Milanello e chiedere l’autografo di Materazzi. Ci credo che tutti mi guardassero male!

mercoledì 9 settembre 2009

Capitolo 41 E cinque cose da fare ASSOLUTAMENTE a Sydney...part 2.

3. Fare i turisti della domenica

La totale assenza di schiamazzi notturni, e una piacevole e fresca brezza oceanica ci spingono a tenere le finestre spalancate durante il riposo notturno. In tal modo, allo spuntare dell’alba,abbiamo modo di apprezzare i preparativi, l’allestimento e il successivo svolgersi del simpaticissimo e chiassosissimo mercatino del quartiere, che, manco a dirlo!, ha il suo naturale epicentro giusto nella via sotto il nostro hotel. A quel punto il demone dello shopping, tenuto faticosamente a bada (tranne qualche sparuto caso) durante le nostre scorribande, si impadronisce della dolce metà, la quale, non paga dell’ avermi buttato fuori dal lettone ad orari improponibili, si getta fra gli stand sventolando valuta di ogni nazionalità.

Parecchio tempo e denaro dopo, il demone viene placato e, carichi di sporte di ogni peso e misura, ci rechiamo a quello che è supposto essere il main event della giornata, ovvero la crociera sulla baia. Devo ammettere che quando ce l hanno proposto avevo storto parecchio il naso prima di accettare l’idea. La crociera, complice il lavoro che faccio, mi sembra un modo di viaggiare vecchio e noioso, in poche parole poco adatto a noi. Mi sbagliavo. Il tour in nave per tutta la baia è il modo migliore per farsi l’idea della città, e per goderne appieno la bellezza. Poi ci sono modi e modi di vivere la medesima esperienza, e il poterli studiare farebbe la gioia di qualsiasi antropologo. Il costo del biglietto copre un giro di un paio d’ore lungo le insenature di Sydney e un sostanzioso buffet sottocoperta. Dopo pochi minuti inizio a sospettare che quest’ultima sia l’attrazione principale per la maggior parte dei partecipanti. I tavoli del cibo sono presi d’assalto a più e più riprese, gli sguardi sono rapiti più dal crostaceo che non dalle vetrate fuori dalle quali scorrono le meraviglie della città, il numero dei camerieri impegnati è tre volte maggiore quello dei marinai, la qual cosa, non so perché, mi agita.

Dopo essermi anch’io abbondantemente rifocillato, non intendo negarlo, salgo sul ponte esterno per una sessione estrema di fotografia. Del centinaio di partecipanti alla gita a raggiungerci all’esterno sono poco più di una ventina, la maggior parte famiglie con figli troppo piccoli per costringerli a stare seduti a tavola due ore.

Sydney Bay
Frustrati per non aver potuto cremare ogni singola lisca rimasta, si sfogano fotografandosi l’un con l’altro sino alla quarta generazione. Poco male, l’ampio giro per la baia e la bellezza della giornata ci pongono nelle condizioni ideali per guardare con accondiscenza tutto il genere umano, non solo lebestie digiune da mesi che sotto di noi stanno leccando anchele pentole, e sbarchiamo sazi spiritualmente ancorché nel fisico.


lunedì 7 settembre 2009

Capitolo 40 E cinque cose da fare ASSOLUTAMENTE a Sydney

Non sarà l’ Hilton ma di certo anche l Holiday Inn è un gran bel posticino per passare la notte. Entriamo in una hall spaziosa e accogliente, dominata da un enorme albero di Natale. Alla reception ci accoglie una ragazza carinissima, in possesso di un italiano migliore del nostro, che finge di non notare il nostro aspetto da profughi e ci dà un benvenuto caloroso. Doccia rigenerante, vestizione adeguata al nuovo clima, sorrisetto ebete e via, usciamo a prendere possesso di Sydney.

1. Trovare le migliori condizioni climatiche possibili.

Rimanendo nelle vicinanze dell’albergo abbiamo modo di visitare il porto vecchio. “The Rocks” era divenuto con gli anni il quartiere più malfamato della città. Negli anni settanta/ottanta si è assistito ad un’opera di risanamento energica e mirata, che ha portato alla scomparsa degli edifici fatiscenti e della malavita, e alla nascita del polo turistico che è oggi. Ceniamo in uno dei tanti ristoranti che si affacciano su questi stretti vicoli e ci lasciamo contagiare dal clima del saturday night del popolo del Nuovo Galles del Sud. Per tentare di digerire l’ennesima grigliata e i bicchieri di rosso locale, generoso ma traditore, passeggiamo senza una meta precisa nel dedalo di viuzze fino a sbucare nella splendida promenade che circonda la baia. Questo è lo spettacolo che ci si è presentato.

Sydney Opera House

2. Tuffarsi nella Dolce vita.

Dopo lo spettacolo della luna piena sulla baia non c’è molto altro che potrei chiedere alla vita, almeno non nella stessa serata. E’ quindi con estrema soddisfazione che riportiamo le nostre stanche membra in hotel. Peccato che siamo gli unici a pensarla così, nel vicolo su cui le nostre finestre si affacciano è in pieno svolgimento la movida del sabato. Quindi nel tempo che impieghiamo a lavarci i denti e metterci in branda tutti i rumori e gli schiamazzi cessano. Ore 23.30. La serata è già finita. Ricapitolando:

· Ore 16.00 Fine lavoro.

· Ore 17.00 Fine Happy Hour.

· Ore 19.00 Fine cena.

· Ore 23.30 Fine Sabato sera

· Ore 24.00 Nanna.

Modesti? Forse. Il punto è che si divertono così, bevono fiumi di birra, ballano e si devastano come i loro coetanei di tutto il mondo. Con la differenza che al mattino dopo non devono necessariamente dormire fino al pomeriggio per recuperare il sonno perduto, e possono correre a far surf appena il sole si leva.

giovedì 27 agosto 2009

Capitolo 39 Cinque cose da NON fare a Sydney

1. Non dare troppe informazioni alle guide.

Appena scesi dall’aeroplano abbiamo chiesto informazioni per dirigerci al nostro albergo. In Australia anche l’impiegato più meschino e umile si sente in dovere di intrattenerti mentre sbriga le tue pratiche, quindi il motivo del nostro viaggio salta fuori due o tre volte al giorno. Solo che la sagoma in questione non si accontenta di farci un sacco di complimenti e di augurarci ogni bene. No, lui molla lo sgabbiotto delle informazioni e ci mena di persona al terminal del nostro pulmino, infastidendo gli altri passeggeri con i dettagli della nostra vacanza.

2. Non prendere il bus navetta di quel tizio.

Mi piacerebbe ricordare il nome dell’autista e della sua compagnia, perché è stato veramente l’unico vero stronzo autoctono incontrato. Questo dato di fatto oggettivo, unito al fatto che dopo dieci minuti di sproloquio sul nostro conto io stesso ne avrei avute le scatole piene di me medesimo, fa sì che, dopo aver gettato di malagrazia i nostri bagagli nel container, si rifiuti di ascoltare la nostra destinazione finale e parta verso la città a tutta birra. La situazione all’interno del pulmino è dunque questa: nessuno ha mai incontrato uno stronzo in Australia e nessuno ha mai viaggiato verso Sydney a 100 all’ ora, smadonnando verso ogni altro autoveicolo. Ad ogni fermata scende una coppia che ringrazia Dio di essere viva e se ne va senza salutare l’idiota alla guida e gli italiani in viaggio di nozze, rei, loro malgrado, di averlo inacidito a tal punto.


3. Non farsi prendere dal panico.

Ricapitolando: sono sveglio dall’alba. Ho preso un volo di tre ore, di cui gli ultimi quindici minuti sono stati fra i più brutti della mia esistenza. Sono vivo per miracolo ma l’autista sembra intenzionato a rimediare a questo errore cosmico. Se non m’ammazza la sua guida lo faranno gli altri passeggeri, nel comprensibile tentativo di guadagnarsi la sua simpatia. In questo clima d’odio che si respira in cabina non v’è da stupirsi se decido di scendere alla prima occasione propizia. Il pulmino ferma nei pressi di un hotel. Guardo il nome della via, e Diamine!, è proprio quella del mio Hotel! Chiaro come il sole, lo stronzo manco ci avvisa che siamo arrivati, e già si sollazza all’idea di portarci in giro per tutta la città, fino a trovare un angolino riparato dove, con la complicità del buio ormai calato, fare orrendo scempio delle nostre membra. Hai fatto male i tuoi conti, scampaforche! Mia moglie riposa tranquilla sul sedile posteriore, dopo avermi implicitamente affidato la sua sicurezza e la nostra destinazione finale. Non ti deluderò tesoro!! Trascino Barbara giù dalla trappola infernale, recupero i miei bagagli e zittisco le proteste dell’autista assassino. Se ne va scrollando le spalle. E’ finita maledetto sociopatico, non ci avrai, rassegnati con dignità.

4. Non… (non voglio rovinarvi la sorpresa!)

Barbara dormicchiava. Ha una certa stanchezza accumulata, un po’ di tensione per l’atterraggio mista allo sgomento per la guida del nostro mancato carnefice. La strappo al suo riposo e questo non le giova. La abbandono momentaneamente di fianco ai bagagli, sperando se ne curi. Un giovinastro in divisa approfitta del suo evidente stato confusionale e le ghermisce le valige. E’ troppo. Una vena blu inizia a pulsarle sotto la pelle trasparente della tempia. Inizia a sbuffare e a battere il selciato con lo zoccolo, come un toro che si prepara a caricare. Per fortuna la lucidità torna a farsi strada nel provato cervellino e il massacro non avviene.

A parziale scusante di quanto sin qui avvenuto, e di quanto andrò a narrare di seguito, devo qui elencare un paio di quelle che in tribunale verrebbero chiamate circostanze attenuanti. Sydney è la penultima tappa del viaggio. Se avete seguito le nostre avventure sin qui saprete che non ci siamo concessi granché in fatto di lussi e comodità, soprattutto in fatto di hotel e ristoranti. Ecco perché quando si è trattato di scegliere l’ ultimo alloggio (l’ultima tappa è sull’isola, c’è un solo resort, tutto da descrivere, quindi l’ultimo albergo da scegliere è stato a Sydney.) ci siamo concessi la prenotazione presso una catena importante.

Un inserviente che ci raccoglie il bagaglio non l’abbiamo mai trovato. Ecco perché Barbara si prepara alla pugna, salvo poi desistere quando ricorda l’equazione Sydney = albergo figo. Facciamo così il nostro trionfale ingresso all’ Hilton. Il lusso delle rifiniture si unisce allo sfarzo degli ospiti vestiti in pompa magna. In fondo è sabato sera, siamo sotto Natale, la cena aziendale di fine anno negli hotel più rinomati è un classico. E noi siamo arrivati qui dritti dal deserto, bermuda e scarpe da ginnastica, sporchi e pieni di polvere rossa fin sui capelli. Corriamo alla reception intimoriti e fuori luogo come raramente ci è accaduto in vita. Troviamo un ragazzino compito e gentile di non più di vent’anni, quindi a sfoggiare il sorrisone e il blando inglese tocca alla signora. Tira fuori il book dei vaucher, estrae quello relativo a Sydney e glielo rifila, sperando di ottenere una stanza nel minor tempo possibile, in modo da poterci levare quanto prima dall’imbarazzante situazione. E ovviamente il giovanotto sparisce. Dopo cinque minuti, in cui tutti quelli che transitano per la hall, compresi sindaco e assessore alla cultura, sentono il desiderio di umiliarci per la nostra orrenda condizione, torna con una piantina della città in mano. “Ecco, noi siamo qui, voi dovete andare qui, vedete la strada è quella giusta ma è parecchi isolati da qui, vi conviene chiamare un taxi…”. Mi sa che l’inglese di Barbara peggiora quando ha sonno. Intervengo: “No vede, noi abbiamo la prenotazione, qui dice hotel Holiday Inn, George Street, Bonazzi, honeymoon ecc. ecc.” “Appunto!”

Ah, ok, forse ci sono…la strada è giusta, ma c’è un altro albergo più avanti, Hilton è una super catena, ce ne saranno due o tre qui a Sydney, siamo scesi a quello sbagliato, sfortunella!

“No mister, the name of the street is correct, but..” “But???” “The reservation is for Holiday Inn. This is HILTON!”

La quarta cosa da non fare a Sydney è quindi: Non confondere un hotel per un altro, cribbio!

5. Non lasciare che l’ orgoglio prenda il sopravvento.

Dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio il consierge prende in mano la situazione e ci mostra dove dobbiamo andare. Perfetto, tutto chiaro, ora dobbiamo solo recuperare i nostri bagagli dalle mani dei fattorini. Non contenti della grassa figura rimediata dobbiamo pure spiegarla alla bassa manovalanza per riavere ciò che è nostro. Come ampiamente comprensibile ci scherzano per un quarto d’ora, supplicandoci di rimanere lì nonostante tutto, dal momento che ”Holiday inn sucks!” Alla fine hanno pietà di noi e ci rendono le borse, offrendosi di chiamarci un taxi. E lì, non pago della mia già pietosa condizione, ho un sussulto d’orgoglio e rifiuto. Non saranno un paio di isolati a piedi a spaventarci, non dopo questa orrenda giornata.


Lascio alla cartina il compito di spiegare cosa ha comportato questa sciagurata decisione. Google maps mi dà una distanza da un hotel all'altro di 1,2 km, pari a trenta minuti di cammino in parziale salita, un afoso pomeriggio estivo, vestiti di tutto punto, zaino in spalla e trascinando due borsoni da venti chili. Una volta arrivato all Holiday Inn non avevo più il coraggio di entrare!

martedì 25 agosto 2009

Comunicazione di servizio

Sabato 22 Agosto:


Grazie alle mie amicizie altolocate ho rubato un passaggio televisivo dentro il Tg regionale di 7 Gold. Che dire: troppe faccette. Troppe zeta. Decisamente troppo rugby, alla domanda sulla Celtic League volevo sprofondare. Un paio di passaggi rivedibili, dovuti sicuramente all'emozione, ma che andavano gestiti meglio, tipo la nebulosa descrizione iniziale e il pessimo "Non è un libro per vecchi!"

In compenso ho beccato la telecamera quasi sempre, e se le luci dello studio sottolineano la mascella sporgente e il pallore cadaverico, forse, ma dico forse, un pochino mi smagriscono pure.

Prossimi obbiettivi: la diretta nazionale dentro il programma di liscio del mezzogiorno e della sera. Conquistiamo il pubblico dei più giovani!!!

mercoledì 19 agosto 2009

Capitolo 38 Terrore a bassa quota

Sono in debito di un riepilogo della nostra esperienza nel Never Never. A conti fatti le due escursioni all’interno dei monti sacri ci sono piaciute parecchio: lo scenario con gli indescrivibili giochi di luce e colori, l’incredibile fortuna di visitare luoghi inospitali nel momento più favorevole possibile, la fascinazione e la sacralità che il paesaggio ispira. Per questi motivi valeva assolutamente la pena venire a darci un’ occhiata. Quello che proprio non c’è piaciuto è stata la dimensione del resort. Fermo restando che le ragioni che portano alla sua nascita sono le migliori, cioè il voler raggruppare in strutture sorvegliate tutto il turismo che transita nella zona, per noi che venivamo da dieci giorni di vita eremitica lungo la Great Ocean Road, trovarci nel deserto con centinaia di altre persone ci ha pesantemente condizionato. Per ritrovare la quiete e serenità perdute quale destinazione poteva essere più appropriata di una metropoli mondiale qual è Sydney?

L’attesa un po’ troppo lunga nel minuscolo aeroporto di Ayers Rock ci dà modo di spedire un po’ di mail di aggiornamento sulle nostre condizioni. Siamo in viaggio di nozze, siamo nei luoghi che abbiamo sempre desiderato vedere, siamo in clima “nuvoletta rosa”, insomma possiamo tranquillamente sollevare una certa qual invidia nei destinatari dei nostri rapporti. Poi montiamo in aereo. Poi decolliamo. Poi arriviamo a Sydney e ci prepariamo a scendere. Poi scatta il terrore.



Come si evince dalla mappa, le piste per gli atterraggi e decolli sono site su una striscia di terra esile quanto una promessa, e circondata dalle acque della baia. Nell'imboccarla il pilota sorvola questo tratto di mare abbassandosi sempre di più ed esponendosi ai venti che dall’oceano soffiano incontrastati fino alla città. La soggettiva da un sedile di un aeroplano in planata è quindi la seguente: oblò a destra, acqua. Oblò a sinistra, acqua. I colpi di vento, le conseguenti sbandate e i vuoti d’aria permettono di apprezzare che anche sotto l’aereo altro non vi è che acqua. Il sospetto che il pilota abbia perso il controllo del veicolo e stia tentando un improbabile ammaraggio inizia a diffondersi fra i passeggeri. Le hostess sono sedute ai loro posti, le cinture allacciate, le mani in grembo. Il trucco è capire se sono abituate a queste condizioni quando atterrano in questa zona, oppure se i loro sorrisi sono più tirati e falsi del dovuto. Niente da fare, evidentemente la Quantas arruola le sue crew fra i giocatori di poker professionisti. E tu continui a scendere assieme al maledetto apparecchio verso quello specchio d’acqua cupo e agitato dai marosi, ballando al vento come una piuma e trattenendo la colazione con i denti finchè, quando ogni speranza è ormai perduta, e già un rauco grido inizia a farsi largo nella tua gola, le ruote del carrello toccano terra.

martedì 18 agosto 2009

Capitolo 37 Picnic ad Ayers Rock.

L’ immediato autocostituentesi comitato degli italiani all’estero organizza tosto una meravigliosa grigliata per la serata, per dar modo a quella minima parte di turisti, che ancora non s’è accorta che qui ci sono degli italiani in vacanza, di ascoltarli nella celebre versione della serale caciara di gruppo. A malincuore, ma molto a malincuore siamo costretti a rinunziarvi. E’ un dolore che porterò sempre con me. Chiudiamo nuovamente le nostre valige e scendiamo a cena protetti dal crepuscolo per non farci vedere. Prima di ritornare in camera propongo un giro notturno attorno al resort per godere della luna nuova, ma un paio di urlacci di mia moglie, uniti a quelli in lontananza di chissà quale fiera mi convincono a saltare anche quell’esperienza. Per fortuna non mi perdo un’eccitante sveglia alle 3.30 del mattino, uno di quei sottili piaceri che mi spinge ad ululare come un dingo per la felicità

Il ritrovo è fissato alle 4 del mattino di fronte al resort. Uno stupendo cielo stellato e un freddo apocalittico fanno da cornice ad un gruppo di zombie che scambiano a malapena quattro parole e attendono i caldi e confortevoli sedili del pulmino come un bambino attende il gelato. Ci scarrozzano fino ad Uluru e ci mollano ai piedi della roccia sacra, appena in tempo per godere dei primi raggi del sole nascente. Un paio di puffi, leggi soliti cretinetti in gonnellina-infradito-canottierina, cianotici per il clima rigido, rientrano nel bus e non li rivedremo fino al solstizio. Priceless.

Ayers Rock

I cambi di colorazione di Uluru all’alba ripagano abbondantemente della levataccia. Facciamo un ampio giro della roccia e ci ritroviamo immersi in una natura verdeggiante e rigogliosa, sempre per merito delle piogge dei giorni scorsi. Nonostante la temperatura in rapida ascesa, conservo un ricordo del famigerato deserto australiano come un posticino accogliente rispetto alla pianura padana in agosto. Un veloce giro al centro visitatori e poi ripartiamo verso il resort. Qui recuperiamo i nostri bagagli e ci dirigiamo al minuscolo aeroporto di Ayers Rock. Prossima destinazione: Sydney!

lunedì 10 agosto 2009

Capitolo 36 Passeggiata e tramonto ad Indastria.

Per chi, come me, è cresciuto a pane e avventure di Conan, il ragazzo del futuro uscito dalle matite di quel genio assoluto che è Hayao Miyazaki, la passeggiata fra i monti Kata Tjuta offre un ulteriore spunto, tanto imprevisto quanto piacevole. La bizzarra conformazione delle rocce, i colori accesi, i solchi scavati nei secoli dalle rare piogge Indastriami fanno tornare in mente l’architettura malata della città di Indastria, la cittadella fortificata al centro delle avventure del simpatico e risoluto eroe di cui sopra. Fatta questa immane scoperta, decido di cercare conferme fra i da me bistrattati italiani di poc’anzi, giacchè mia moglie all’epoca seguiva cartoni animati di altro genere. Purtroppo non ottengo solidarietà di alcun tipo nemmeno dai miei compagni di avventura. Chi troppo giovane, chi troppo vecchio, chi semplicemente troppo fesso per ricordarsene, nessuno è in grado di condividere con me questa clamorosa rivelazione. Fastidio.


Continuando il nostro percorso abbiamo modo di osservare le pitture rupestri degli aborigeni e passare vicino ai loro luoghi di culto. E’ semplice capire perché i primi abitanti di questo sterminato territorio abbiano da subito considerato sacre queste rocce, sia Uluru che i Kata Tjuta. Attorno non c’è nulla per chilometri, solo una sterminata piana desertica. Le uniche alture che spezzano un paesaggio altrimenti piatto e monotono sono visibili anche da molto distante. Le rocce sono rosso fuoco e cambiano tonalità a seconda di come la luce del sole le colpisce. Nel silenzio assordante dell’ Outback questo scenario scatenerebbe dubbi cosmici e quesiti teologi anche al più incallito degli atei.

Chiudiamo la meravigliosa gita con un aperitivo ad Ayers Rock. In attesa di poterla visitare all’alba di domani, ci gustiamo le sue variazioni cromatiche sotto i raggi del sole morente. Mentre il personale del Resort allestisce tavolini e sedie ed apparecchia degli invitanti stuzzichini, la gente si riversa nelle adeguate piazzole per fotografare e filmare gli ultimi istanti di luce sulla pietra. E per quanto sia assolutamente d’accordo nel constatare che la serialità ammazza l’arte, e che l’essere originali è tutto un’altro paio di maniche, pago anch’io il mio tributo alla fabulazione del loco e mi getto a piè pari nello stereotipo.

martedì 4 agosto 2009

Capitolo 35 …però è fiorito e vitale!

Approfittiamo della mattinata libera per fare un po’ di provviste, e un po’ di shopping mirato. Poiché mia moglie ha già dato un contributo pesante all'arredo del nostro microappartamento con l’enorme faro di Kangaroo Island, mi sento in dovere di andare alla ricerca di un boomerang aborigeno. Quindi, dopo aver depositato in camera la cassa d’acqua minerale pro deserto, batto a tappeto la zona alla ricerca del cimelio. Partendo dalla necessaria premessa che l’intera struttura del resort altro non è che una legalizzata macchina spenna turista, mi sembra di raggiungere un equo compromesso disertando il classico negozio di souvenir in favore di una galleria d’arte simil/finto/autoctono/artigianale. Opto quindi per un attrezzo grezzo decorato a mano da un artista locale (almeno non è il solito Made in China!) , che costa il doppio rispetto a quelli seriali, ma che oggi, come diceva un saggio, dà proprio un tono al mio salotto.

Dopo aver finito i nostri giri ci ritroviamo a bordo piscina con i bagagli più pesanti e i portafogli più leggeri. Diamo la stura alla crema protezione 50, alla pratica cazzuola necessaria a spalmarla, e assaggiamo il sole del deserto. Si tratta di un vero e proprio battesimo del fuoco, poiché nel pomeriggio si parte per il tour delle Olgas. Il pulmino ci scarica ai piedi di questo sistema di monti che fanno parte della medesima formazione rocciosa della celebre Uluru o Ayers Rock. Il loro nome aborigeno, Kata Tjuta letteralmente significa “molte teste”, ed è infinitamente più poetico che non il banale nome della regina che governava il paese di origine del primo esploratore bianco che li raggiunse.

Kata Tjuta o The Olgas

L’incredibile fortuna che ci ha accompagnato durante tutta la luna di miele fa sì che le piogge dei giorni scorsi se ne siano andate lasciando il deserto fiorito e la temperatura più gradevole. Se la media del periodo è abbondantemente attorno ai 50°, la colonnina oggi si ferma attorno ai 30°. Un bel sollievo, una circostanza che ci permette di inoltrarci fra i monti senza pagare un prezzo troppo elevato in termini di fatica e sudore. La guida ci spiega che qui il sudore non appare proprio. Evapora appena raggiunge l’epidermide. L’incauto esploratore tende quindi a disidratarsi senza rendersene nemmeno conto. E qui torna utile la scorta d’acqua che avevamo previdentemente comprato. Ad altri compagni di viaggio non va così bene. Appena scesi dall’aereo sono montati sul bus per l’escursione, di conseguenza hanno con sé solo una bottiglietta da 30 ml. La loro gita si svolge in un perimetro di 20 metri attorno al pulmino, e alla scorta d’acqua al suo interno. Un’altra coppia di balordi affronta il deserto in infradito, gonnellina jeans minimalista e cappellino in paglia. Dopo dieci minuti dieci di passeggio sotto il sole decidono prudentemente di rientrare all’ombra e battono in ritirata. Better luck next time, tanto in fondo l’Australia è dietro l’angolo, ci saranno altre occasioni…

Scremate le mele marce, il gruppo procede nell’esplorazione delle “Molte Teste”. Attorno a noi non si scorge nulla per chilometri e chilometri. A parte i rilievi delle Olgas e Ayers Rock il deserto procede piatto come una pista di bowling, con l’eccezione di qualche sparuta acacia a frammezzare lo sguardo verso l’orizzonte. In compenso attorno a noi tutto pullula di vita. Rinvigoriti dalle piogge copiose delle ultime settimane fioriscono gli alberi e i cespugli. Nelle pozze dove si raccoglie l’acqua piovana sguazzano allegramente migliaia di girini. Fra le pareti a picco attorno a noi rimbalzano echi di vari versi di uccelli. La nostra solerte guida passa fra le varie coppie proponendo soggetti da fotografare e offrendosi per scattare foto ricordo. Nelle sue parole lo stesso compiacimento nostro nel vedere il deserto così vitale e così fiorente. Un inaspettato colpo di fortuna.

mercoledì 8 luglio 2009

Capitolo 34 Il deserto non è abbastanza deserto...

Non è semplice parlare di questa parte di viaggio, i sentimenti sono contrastanti e non sono ancora riuscito a trarne un bilancio conclusivo. Ma andiamo con ordine. Il pulmino di raccordo ci trasporta dal minuscolo aeroporto all'area resort, questo mega complesso nei pressi del Parco Nazionale Uluru-Kata Tjuta dove hanno concentrato, in una specie di residence sotto stretto controllo degli impatti ambientali, tutte le possibili forme di servizio per i turisti, alberghi più o meno di lusso, campeggi, ristoranti, negozi. Al di fuori di quello, solo gli ululati dei dingo, la luna e il deserto.


Veniamo smistati alla nostra camera, dove approfittiamo dei tre giorni di sosta nello stesso luogo( mai successo!) per fare un po’ di bucato e una doccia rinfrancante. Ovviamente nel momento di maggior insaponamento inizia a suonare l’allarme antincendio, e mi tocca correre fuori vestito di solo asciugamano, suscitando il ribrezzo di una coppia di giapponesi. Il problema è che dopo giorni di viaggio in località deserte, trovarsi nel deserto ma circondati da turisti di ogni nazionalità ci spiazza.Desert sunsetNon sono più abituato a tanta gente nei bar, nei negozi,ovunque. E dopo solo poche ore già ho un forte impulso a tornare alla mia auto a nolo e alle mie strade sgombre del sudest australiano. A distrarci da questa condizione di autoflagellamento misantropo giunge inaspettato un magnifico tramonto, che squarcia le nubi temporalesche e ci invoglia ad una passeggiata fino al punto panoramico subito fuori dal resort. Qui abbiamo il primo contatto visivo con la montagna sacra, incendiata dagli ultimi sprazzi di sole e con il sottofondo degli uccelli che si riaffacciano dai nidi dopo l’acquazzone. Che dire? Semplicemente un’ esperienza mistica.


Un’altra esperienza mistica la facciamo al ristorante. Circondato da uno stuolo di cameriere poco più che ventenni rischio una punizione biblica da parte della mia neosposa nel caso il mio approcciare non si limiti al puro ordinare. Sono vietati di conseguenza l’ammiccare, il sorridere idiota e soprattutto il lasciare un feedback positivo alla più carina nei vari questionari sparsi un po’ ovunque. E’ in questa fase che odo una delle domande più orrende e fastidiose all’orecchio che possa capitare di sentire all’estero: “Ah, ma voi siete italiani?” . Capita infatti che al tavolo di fianco si radunino un po’ di compatrioti, e ci tengano a sottolinearlo al resto del mondo. Facciamo un altro po’ di qualunquismo becero e razzista: sono poche le popolazioni immediatamente riconoscibili al di fuori dei loro confini. Giapponesi e cinesi è semplice individuarli. Il tedesco si intuisce spesso dall’abbigliamento, tipo il sandalo col calzino. Italiani e spagnoli gridano.
Silhouette
E si riuniscono. Differenze regionali insormontabili all’interno dei patri confini si dissolvono in salde amicizie non appena si rende necessario l’uso del passaporto.
Così microtavoli di coppiette in viaggio di nozze evolvono in macrotavolate interregionali, dove il tono dei discorsi verte su amenità del tipo:

1. “Ah, è un mese che parliamo solo inglese, quant’è bello poter riparlare italiano!”
2. “Il deserto? Bello, ma pensavo facesse più caldo!”
3. “Tra poco è Natale, ma come fai a sentirlo qui che è primavera?”

Brrr…per fortuna io e mia moglie siamo di carnagione cadaverico/vampiresco anche dopo settimane di sole australe, quindi nessuno si sogna di identificarci per dei compatrioti, e di invitarci all’italica riunione. A testa bassa guadagniamo l’uscita e scivoliamo nell’oscurità.


lunedì 29 giugno 2009

Capitolo 33 Piove sul centrale.

Per fortuna il giorno dopo dobbiamo solo svegliarci all’alba. La lotta notturna fra la pizza e le nostre viscere alla fine ha visto spuntare queste ultime, ma la pugna è stata lunga e faticosa, e quando il sole sorge e la sveglia chiama, sui nostri volti è facile leggere un profondo scoramento. Non c’è nulla da fare, anche a migliaia di chilometri da casa non c’è nulla che mi rompa le scatole quanto svegliarmi presto alla mattina. Che si tratti di recarmi al lavoro, o in aeroporto a continuare il viaggio più bello mai intrapreso, io odio sentire la sveglia. E’ più forte di me. A maggior ragione dopo una nottata di lotte intestine, termine non utilizzato a caso. Conscia di questo mio lieve difetto di personalità mia moglie mi spedisce alla reception, in modo che possa sfogare il mio malumore sul portiere, mentre lei dà inizio ad un’ampia operazione di restauro facciale.

Recuperiamo l’auto e ci dirigiamo alla volta dell’aeroporto. Da che siamo atterrati in questo paese ci siamo abituati a dimensioni esagerate in ogni contesto, quindi non mi preoccupo troppo quando il mio navigatore satellitare biondo non mi indica tempestivamente la prima entrata utile per gli imbarchi. Bene, ci saranno altre occasioni immagino. E invece no. Dai finestrini vediamo sfilare l’intero complesso aeroportuale senza potervi accedere in alcun modo. Sono le ultime baruffe con il sistema di guida all’inglese, una volta superato lo scoglio dell’inversione di marcia e dell’ unica entrata disponibile ci tocca riconsegnare la fida autovettura al signor Hertz. E sono lacrime e stridore di denti, non solo perché ci separiamo da qualche centinaio di dollari australiani, ma anche perché ormai ci si era affezionati al veicolo. Ovviamente non si è fatto a tempo a darle una frettolosa pulita, quindi da sotto i sedili recuperiamo in velocità le mille bottigliette d’acqua sparse e le altre carabattole e raggiungiamo il check in.

Il nostro aereo ci porta all’ interno del continente, precisamente ad Alice Springs. Siccome siamo in pieno deserto è abbastanza inconsueto che appena il carrello si posa al suolo si scateni un furioso temporale, costringendo uno stuolo di hostess Quantas a venire a prenderci con gli ombrelli. Due ore di attesa fra un volo e l’altro, due ore di tuoni e lampi. Giriamo per il microscopico aeroporto fino a stufarci di vedere i più clamorosi esempi di arte aborigena falsa sparsi ovunque nelle poche boutiques. Molto più coinvolgente è incontrare per la prima volta dei veri aborigeni, intere famiglie che attendono il nostro stesso volo per tornare a casa. Il temporale non ci dà tregua nemmeno all’imbarco e ci segue fino ad Ayers Rock. Mezz’ora di tragitto col naso incollato al finestrino, a vedere l’acqua raccogliersi in tanti ruscelli istantanei e percorrere una terra rossa come fuoco, rossa come i campi da tennis che calpestavo con disarmante agilità da ragazzo, o che meno prosaicamente osservavo in tv. E’ proprio questo il paragone più immediato che mi affiora vedendo lo spettacolo che si delinea sotto la fusoliera del velivolo. I campi da tennis del Roland Garros. La voce di Rino Tommasi che descrive la pioggia sul centrale parigino. Solo che nella capitale francese le gocce d’acqua non cambiano il paesaggio radicalmente come avviene qui. Sotto di noi il deserto prende vita. L’ acqua risveglia le piante nascoste sotto la dura scorza del deserto, e laddove corrono i torrenti è tutto un fiorire e un germogliare di verde, di ogni forma e dimensione, acceso e violento come il rosso della terra con cui contrasta. E’ uno spettacolo magnifico, e sono quasi dispiaciuto di dover atterrare.

giovedì 25 giugno 2009

Capitolo 32 LA PIZZA

Considerando che da che mi sono svegliato stamane:
  1. Ho visitato la parte nord di Kangaroo Island
  2. Ho affrontato quella che a tutti gli effetti può essere considerata una traversata oceanica
  3. Ho visto i canguri
  4. Ho guidato per Adelaide
  5. E, last but not least, mi sono concesso un bagno caldo e rilassante nella supermegaipefashiondesigndiblindaperdue toilette dell'albergo
non trovo scandaloso essere veramente TROPPO stanco per aggiungerci una passeggiata di qualche isolato per visitare Adelaide. Me la tengo per la prossima volta. Alla luce di quanto precedentemente esposto, il primo ristorante decente che incontro va benissimo.
    Dopo dieci giorni di pranzi a base di pies , e di cene in cui la grigliata, in ogni sua espressione, è stata l'unica costante, il nostro fisico richiede a gran voce del carboidrato spiccio. Ora, fuori dal belpaese un bel piatto di pasta è tanto facile da trovare quanto difficile da gustare. E' un assioma. La pizza invece concede due variabili. Può fare veramente schifo, e questo a prescindere dal fatto che il pizzaiolo vanti antenati più italiani di me medesimo, oppure può essere commestibile, il che spesso, per quelli nella nostra situazione, cioè in astinenza dura da cibo familiare, è già un risultato di tutto rispetto. Ok, tentiamo la sorte. Il ristorante italiano all'angolo sembra promettente. L' interno è accogliente, non c'è troppa gente, i poster alle pareti sono tutti in tema cinematografico/patriottico/stereotipato. C'è il buon Tony Montana di Scarface, l' Italian Stallion di Rocky, la Sofia nazionale nella Ciociara. Spaghetti, mafia, mandolino...fatta per la pizza!
      Ordiniamo. Mentre attendiamo diamo una sbirciata ai tavoli a fianco. Le pizze sembrano buone, nessun avventore stramazza sotto il tavolo dopo un paio di bocconi, il che è un bene. L'unica differenza che rileviamo è che le compagnie ordinano una pizza sola, la mettono in centro e ne sbocconcellano qualche fetta, più come aperitivo che come portata. E c'è un motivo. Noi affrontiamo il piatto nazionale spavaldi, uno a testa, come ci siamo abituati a fare da che abbiamo smesso il biberon. Alla terza fetta la pasta tagliata con il gesso a presa rapida si espande nello stomaco e ne prende il possesso per parecchie ore, impedendo l'entrata di qualsiasi altra particella elementare.
        E qui mi sfogo: Ma Porca Mastea! , come dice mia sorella Alberta. Possibile che di tutto il mondo siamo lo zimbello, che tutti i pueblos unidos sentano il bisogno di farsi i cavolacci nostri, che tutti comunque e ipocritamente spaccino i nostri piatti nei loro ristoranti poichè il made in Italy sulla tavola spacca e nessuno, dico nessuno è mai riuscito a imparare a fare una pizza decente? Ma che ci vorrà? Acqua, farina e sale...li abbiamo solo noi? Uno guarda, impara, si fa dare due o tre dritte...poi un po' di pratica a casa sua e via...non dico gli spaghetti allo scoglio o il risotto champagne e provola, ma una pizza! Mozzarella e pummarola in coppa? Difficile? Ma cribbio!
          Fatto sta che passiamo dal momento di esaltazione mistica per Footprints in the Sand, poster letto mentre attendevamo l'attentato alle nostre viscere e che, onta e ludibrio!, misconoscevo, ai vari momenti sempre mistici, ma di tutt'altro genere trascorsi insonni nonchè in overconfidence da digestivi.

          giovedì 4 giugno 2009

          Capitolo 31 Adelaide vista di striscio.

          Gli australiani hanno una considerazione limitata per il loro animale totem. In effetti l’aggettivo che più utilizzano per indicare il canguro è stupid, che certo non necessita di traduzioni. In effetti passiamo una piacevole mezz’ora in loro compagnia prima che si accorgano di essere stati paparazzati in ogni modo, e si allontanino balzellon balzelloni dagli invadenti umanoidi. Saliamo in macchina, ora il traffico in senso di marcia contrario di Adelaide ci fa molta meno paura. La tangenziale che ci mena in città è enorme, le macchine sono tutte ordinatamente in fila, i cambi di corsia avvengono tranquillamente e senza le minacce di morte a cui sono avvezzo in patria. Di fianco alla strada per le auto ne scorre un’altra solo per le biciclette, completamente separata e autonoma, una tangenziale esclusivamente per ciclisti, con tanto di svincoli, uscite programmate, incroci. Non ne avevo mai vista una, così ci fermiamo un po’ troppo ad ammirarne l’utilità e la praticità, tanto da costringere un pazientissimo autoctono ad azionare, suo malgrado, quell’aggeggio infernale posto in centro al volante.


          Raggiungiamo, non senza qualche patema di troppo, il nostro albergo. Si affaccia su una delle vie principali, in pieno centro cittadino, sarà un tribolo non indifferente trovare un parcheggio. Optiamo per l’opzione “scarica la moglie e i pacchi e arrangiati a posteggiare” , quindi mi dirigo sereno verso il marciapiede e accosto. Subito, in un turbinio di Good Afternoon e aggettivi ridondanti, si palesano un paio di pinguini di altro genere e specie rispetto a quelli visti a K. Island. Mi strappano di mano le valigie, si impossessano dell’auto e ci scaraventano nella hall, dove veniamo presi in consegna dal capo pinguino e da lì trascinati alla nostra stanza. Nel cambio ci guadagnamo direi ampiamente, giacchè dopo dieci giorni di vagabondaggio zingaro e peone il nostro mezzo di trasporto appariva, anche all’osservatore più superficiale, un curioso agglomerato di fango, sabbia e rifiuti su ruote. Invece il nostro alloggio è quanto di più moderno e confortevole abbiamo finora trovato, con un bel lettone alto e soffice, bagno in marmo nero, vasca e doccia, mega televisore al plasma. E ovviamente noi qui ci fermiamo giusto una notte, e nemmeno intera.


          Il tempo di darci una ripulita, di usufruire di tutti i comfort della marmorea toilette ed è già ora di andare a cena. Uscendo facciamo una capatina sul tetto/terrazza dell'hotel, giusto per dare un occhiatina alla skyline di Adelaide al tramonto. Non ci facciamo mancare nulla! Tavolini, angolo bar, vista su i quattro punti cardinali della città, un posticino tranquillo e romantico, ideale per un aperitivo e una cicca in tranquillità e scioltezza. Maledico per l’ennesima volta la mia idea gagliarda di smettere di fumare in luna di miele, e mi dirigo al ristorante.

          martedì 26 maggio 2009

          Capitolo 30 Come passare dall’Isola dei Canguri ai canguri veri e propri.

          Nel delirio di foche, pinguini, pellicani e quant’altro abbiamo clamorosamente mancato l’appuntamento con il vero re di quest’isola, colui che le dà il nome, l’animale che più di ogni altro incarna lo spirito di questo selvaggio continente. A parte un wallabee con cucciolo e uno spezzatino (senza polenta), non abbiamo visto l’ombra di un canguro in tutta Kangaroo Island. Da non poter tornare a casa per la vergogna! Lasciata Emu bay ci dirigiamo non troppo convinti verso Penneshaw, l’attracco del nostro traghetto. Lungo il cammino esploriamo qualsiasi deviazione che la strada ci presenti. Una di queste è uno sterrato stretto e angusto che conduce ad una spiaggia libera. Su ogni albero, ai lati della carreggiata, campeggiano cartelli fatti a mano dai bambini del luogo, in cui si avvertono gli automobilisti della possibilità dell’attraversamento marsupiali. Ma per quanto possiamo sforzare gli occhi non ne vediamo manco l’ombra, e ci tocca recarci all’imbarco con questo cruccio.

          Forti dell’esperienza dell’ andata scegliamo saggiamente di non pranzare prima di salire sul traghetto. Cappellaccio saldamente calcato in testa, travelgum come fossero mentine, ci inerpichiamo sulla poppa del transatlantico (In realtà sarebbe più un transIndiano…boh, vabbè..) e affrontiamo spavaldi la nuova pugna con la corrente oceanica. Drammatico. Il vento dell’est si incunea nello stretto fra la madre terra e l’isolotto ribelle, creando ondate alte, cupe e poco rassicuranti. Iniziamo a ballare da subito, le mani strette alle balaustre, macchine fotografiche e telecamere riposte in fretta negli zaini, le gambe arcuate il più possibile per garantirci un minimo di equilibrio. Dopo nemmeno metà traversata siamo già assai provati. Il resto dei passeggeri soffre sottocoperta, riempiendo pratici sacchettini d’ordinanza sui loro comodi sedili imbottiti. Grazie, preferisco di no. Preferisco stare all’aperto, con le onde che ti sferzano il viso, il vento che ti porta odore di mare, di iodio, di libertà. Non potrei mai fare il marinaio, sono evidentemente troppo a mio agio sulla terraferma che non su qualsiasi altro elemento, aria o acqua che sia. Però è fantastico poter sperimentare queste sensazioni, le stesse (in versione molto ridotta!) di chi esplorava i sette mari su fragili gusci di noce e combatteva ogni giorno per strappare alle onde la propria pellaccia, indurita dal vento di mille tempeste e dal sole di mille tramonti. Corpo di mille balene!

          Finalmente attracchiamo a Cape Jarvis, e lentamente iniziamo le procedure per l’uscita delle macchine. Una solitaria foca viene a porgerci i suoi saluti sguazzando pigramente lungo le murate, come a ricordarci quale angolo di paradiso stiamo abbandonando. Plausibilmente a causa dell’infame traversata, e nonostante il sole abbi già passato lo zenit da un bel pezzo, i morsi della fame ancora non ci angustiano (forse perchè prima lo stomaco deve tornare al suo posto!), e decidiamo di imboccare la strada per Adelaide. Dopo un po’ troviamo uno spiazzo panoramico sull’ oceano, all’ombra di tre imponenti araucarie, e ci concediamo un pranzetto veloce. Fin troppo veloce, poiché le carezze del sole non consentono di mangiare chiusi in macchina, e un nugolo di mosche invadenti e affamate non ci permette di gustare il pasto in pace. KangaroosRipartiamo, io un po’ troppo alterato per quanto la situazione effettivamente meriti. Poi finalmente succede. Arriviamo alle porte di Adelaide, in uno di quei paesi satellite subito a ridosso delle grandi città. Accanto alla strada c’è un prato recintato e degli enormi eucalipti che assicurano gradite zone d’ombra per gli animali. Questo è appunto il motivo che ha spinto un bel branco di canguri a trovarvi rifugio in questo torrido pomeriggio estivo. Li abbiamo cercati nelle zone più assurde, perdendoci in sentieri improbabili e lontani il più possibile da qualsiasi vestigia di civiltà, per trovarli in gran numero, con cuccioli al seguito a due passi dalla metropoli. E’ la terra dei contrari, e l’animale simbolo non poteva costituire un’ eccezione.

          mercoledì 20 maggio 2009

          Capitolo 29 Chi di fari ferisce..

          Ci sveglia il solito vento che sibila fra le imposte. Ieri l’ho trovato molto naturalistico e romantico, oggi un po’ meno. Nonostante sia presto per partire, la cena saltata richiede adeguata contromisura e corriamo dal fornaio appena questi apre i battenti. Dopo esserci abbondantemente rifocillati facciamo una passeggiata per le vie della ridente cittadina. Ad attirare la nostra attenzione è uno di quei classici negozietti che si possono trovare ovunque nelle località di mare, una di quelle trappole per turisti autorizzate, con le sue vetrine decorate e souvenir di ogni tipo in bella mostra. Ad accoglierci al suo interno c’è una simpatica hippie sulla settantina, con lunghi capelli color cenere che le scendono disordinatamente sulle spalle, un curioso vestito a fiori, imperdonabile cliché, e una passione vera per il book sharing. Mentre cerco un adeguato tomo che mi possa far compagnia per tutta la seconda parte del viaggio, commetto l’errore di lasciare Barbara in sua compagnia, e quando lo realizzo è ormai troppo tardi. Mi presento alla cassa con un tascabile di Robert Ludlum che sembra aver passato più mani di una moneta, e che probabilmente vale ancora meno dei quattro dollari che spendo. Mia moglie arriva con un faro portachiavi di mezzo metro dal costo approssimativo ed esagerato di 17 dollari. Ricapitolando

          Lui: Tascabile. Quattro dollari. Usa e getta.
          Lei: Diciassette dollari di faro fragilissimo, da incastrare in qualche modo in valigia e riportare in patria.

          Un vero affare.

          La giusta punizione per l’incauta compagna arriva qualche ora più tardi, e nell’insospettabile forma di una scolaresca. C’è un sole splendido, il traghetto parte nel primo pomeriggio, abbiamo tutto il tempo per fare una breve deviazione verso Emu bay e andarci a rilassare in spiaggia. Arrivati al parcheggio non possiamo non notare i due pulmini pieni di bambini che ci affiancano. In un attimo, dalle portiere aperte si riversa una fiumana ridente e colorata che si appropria di ogni spazio attorno a noi. Mentre osserviamo i tentativi di maestri e genitori di ristabilire ordine e disciplina, una madre ritardataria sbaglia in pieno le misure del suo pick up, e abbatte la staccionata che delimita il parcheggio. La classe raggiunge il momento più alto di anarchia e ilarità.

          Scappiamo verso la spiaggia, che fortunatamente è abbastanza ampia da permetterci di mettere una certa distanza fra noi e la truppa. Finalmente posso togliermi la soddisfazione di mettere i piedi nell’oceano e, di conseguenza, ghiacciarmi le ossa fino al midollo. Nel frattempo i bimbi apprendono sul campo quelle che riteniamo potrebbero essere rudimenti di vita acquatica, nella fattispecie gabbiani, alghe e conchiglie. Sarà il venticello, il rumore di sottofondo delle onde che si rompono placide, le grida dei bimbi e dei pennuti o semplicemente la somma delle mie maledizioni verso l’inutile faro, di fatto Barbara inizia ad accusare un lieve urgenza nelle zone basse. Nel tragitto che ci porta agli unici bagni della baia, i medesimi fattori scatenanti fanno evidentemente presa anche sulla scolaresca. Il problema è che loro hanno il vantaggio territoriale, essendosi accampati proprio presso le ambite toilettes. Morale? Per potersi liberare mia moglie deve attendere che lo facciano tutti i bimbi, e intendo tutti tutti, più le maestre, gli accompagnatori e gli autisti dei pulmini. Poi dicono che non c’è giustizia.

          mercoledì 13 maggio 2009

          Capitolo 28 Parata notturna di pinguini.

          Arriviamo in albergo giusto in tempo per afferrare un biscotto al volo e per scegliere dalla valigia la felpa più pesante, dopodiché corriamo al molo dei pellicani, luogo ove sorge l'edificio della Marina, da cui partono i tour guidati per addentrarsi nella colonia di pinguini. E’ una frizzante seratina primaverile, spazzata dal consueto venticello da sud, latore di profumi marini, nubi minacciose, balsamico iodio e freddo polare. Al momento di registrarci scopriamo con orrore che la ragazzetta in prova come receptionist nel nostro hotel non ha passato la prenotazione per la gita di stasera ai gestori del parco. Brivido, terrore e raccapriccio, poi grazie ad una ragionevole guida autoctona e al fatto che Barbara porta tutti i vaucher relativi al nostro viaggio sempre con sé, quasi tatuati addosso come in Memento, la situazione si sblocca a nostro favore e veniamo ammessi allo show.

          Mentre attendiamo di uscire veniamo parcheggiati all’interno del piccolo museo, dove è possibile apprendere alcune nozioni base mediante appositi percorsi visivi e soprattutto ammirare la vita di questo tratto di mare grazie a rudimentali ma affascinanti acquari. Finalmente arriva il momento di uscire e affrontare la fredda serata. A condurci è uno sbarbatello ventenne, volontario come tutto il resto dello staff, che ci diffida dal fare foto col flash e dallo spaventare in alcun modo gli animali. Le nozioni di biologia pinguina conosciute da Barbara sono, con ogni probabilità, maggiori rispetto a quelle del nostro imberbe Cicerone, ma evidentemente il suo spirito di contraddizione è in modalità on perenne solo con lo sventurato e novello marito, mentre si beve affascinata qualsiasi stupidaggine proveniente da un facsimile di guida indigena. Le nuvole coprono interamente la luna, e gli schivi animaletti se ne stanno belli chiusi nei loro nidi riparati dal vento, alla faccia di coloro che hanno affrontato viaggi intercontinentali pur di vederli.

          Per fortuna il tempo gioca a nostro favore. Infatti questo è l’orario in cui gli adulti rientrano dalla giornata di pesca e chiamano i cuccioli sul bagnasciuga per dividere con loro il frutto delle loro fatiche. Dal mare iniziano a sentirsi i primi richiami e i piccoli lasciano finalmente i loro accoglienti ripari attratti dall’ ancestrale prospettiva della pappa. Tramite uno speciale raggio di luce rossa, invisibile ai pinguini e pertanto non invasiva, la guida li segue mentre, goffi e irresistibilmente buffi, corrono su e giù per la spiaggia alla ricerca dei genitori. Questa particolare specie di pinguini raggiunge, in forma adulta, la non eccelsa altezza di trenta centimetri. Da cuccioli sono dei batuffoli lanuginosi alti poco più di due spanne, con un equilibrio instabile che ne contrasta la eccezionale voracità. Vedendoli mi sovviene che ieri, mentre mi approcciavo all’isola, dalla murata del nostro traghetto avevo intravisto una scheggia di color nero, e lunga pressappoco una trentina di centimetri, nuotare a velocità warp fra le onde dell’oceano. La differenza fra l’ agilità nel contesto marino rispetto alla goffaggine che li caratterizza mentre sono sulla terraferma me li rende ancora più simpatici.

          L’escursione finisce e torniamo silenziosamente in città. Sono le 21.55 e il fornaio/pizzeria al trancio che avevamo puntato stamattina chiude fra 5 minuti. Se vogliamo cenare ci dobbiamo muovere spediti e senza esitare. Il paese è deserto, il vento fischia e tutti i negozi sono chiusi. Da bravi pescatori sono tutti già a nanna da un pezzo. Il fornaio ha le serrande già chiuse, sta spazzando il pavimento e i nostri sguardi imploranti non lo muovono a compassione. Torniamo rassegnati al nostro albergo. Il ristorante è già chiuso da ore, come sapevamo, e i tavoli sono già apparecchiati per il breakfast del mattino dopo. Rubiamo un paio di biscotti e ceniamo in camera con una bustina di camomilla saggiamente portata da Padova.

          mercoledì 6 maggio 2009

          Capitolo 27 I nostri nella Laguna Nera

          La nostra prima giornata sull’ Isola dei Canguri volge al termine. Come bilancio siamo decisamente in attivo per quel che riguarda le foche, meno per le altre specie animali. Purtroppo A baby for a baby..il mancato avvistamento dell’ornitorinco ha un elevato peso specifico, e tende a farmi dimenticare il valore intrinseco della giornata che sta finendo. In fondo, se fossi a Padova, nelle stesse ore mi sarei svegliato controvoglia nel mio talamo già abbandonato dalla consorte; avrei fatto una troppo abbondante colazione fissando la finestra chiusa di fronte a me e mi sarei recato MOLTO controvoglia al lavoro a svolgere mansioni umili e assolutamente inutili per otto ore. Il tutto ritenendomi oltremodo soddisfatto se durante il tragitto mi fosse accaduto di avvistare un paio di passeri o una solitaria garzetta lungo il canale. Qui invece:



          · Mi sono svegliato col vento che fischiava fra le imposte, e mia moglie era accanto a me. (Ok, suona molto mieloso, ma si va in viaggio di nozze una volta sola!)
          · Ho fatto colazione nella miglior bakery della città, nonché unica, mentre i pellicani prendevano il sole a pochi metri da noi.
          · Ho avvistato un paio di falchi, una deliziosa wallabee con cucciolo, una lucertola australiana di mezzo metro, tutti prima ancora di passeggiare a cinque metri da una colonia di foche.



          Ci si può accontentare. In più ancora non abbiamo toccato quello che sarà il piatto forte della giornata, ovvero l’escursione notturna in una colonia di pinguini! Ripercorriamo la strada di questa mattina con passo sostenuto, in direzione di una doccia, di una cena veloce e dell’ appuntamento con i simpatici pennuti. Prima di arrivare a Kingscote commettiamo quello che, a posteriori, si rivelerà un clamoroso errore. Decidiamo di seguire i consigli di un vecchio cartello in legno, che porta inciso “… lagoon” e andiamo ad esplorare questo posticino, senza prima esserci procacciati la cena. In realtà ho letto benissimo “DUCK lagoon”, ma voglio credere si tratti invece di una “BLACK lagoon”, possibilmente con tanto di omonimo mostro, e mi precipito a vederla. Dopo un tratto di sterrato rosso acceso che passa dentro un bosco di eucalipti sbuchiamo in fronte alla pozza. Per una volta ho ragione io: saranno le ombre della sera, i tronchi di alberi morti che affiorano dalle acque scure, l’assenza delle papere che dovrebbero darle il nome, ma la laguna appare molto più black che non duck. Inizio quasi a preoccuparmi.



          In realtà il posto è assolutamente suggestivo e meritava una capatina. Uno stormo di pappagalli rosa staziona sopra un maestoso albero spoglio, e l’aere si riempie del loro simpatico chiasso. Peccato siano soggetti assolutamente refrattari alla fotografia, data la loro naturale tendenza a non riuscire a rimanere fermi nemmeno per il tempo che occorre a fare un click. Fiori di colori e forme sconosciute strappano alla biologa vistosi e rumorosi cenni di approvazione. Questi almeno si possono ritrarre. Un paio di pellicani viene a posarsi fra le radici di un eucalipto posto sulla riva opposta a dove ci troviamo noi. Qui danno vita ad una serie di rituali di seduzione che ci ricordano come da questo lato del mondo sia inoltrata primavera. Tornati alla macchina troviamo ad attenderci un paio di turisti che, come noi, ha coraggiosamente intrapreso l’impervio sentiero sterrato, e ora scruta speranzosa le cime degli eucalipti. Ci chiedono se abbiamo visto koala in zona. Dolenti indichiamo i pappagalli e i pellicani, ma non sembrano apprezzare l’alternativa che offriamo. Li salutiamo e corriamo a vedere i pinguini.

          martedì 28 aprile 2009

          Capitolo 26 L'ammirevole Admiral’s Arch

          Smaltita la delusione per il mancato appuntamento con l’ornitorinco, pianifichiamo sulla cartina il nostro percorso. In realtà c’è ben poco da scegliere. Tra sentieri chiusi per vari accoppiamenti o per ragioni di restauro, e la tempesta perfetta che è pronta per scatenarsi, scegliamo l’unica alternativa possibile e scendiamo in visita all’ Admiral’s Arch. Tendenzialmente sono refrattario a perdermi nelle dettagliate spiegazioni di una guida o di un pieghevole all’ingresso. Preferisco di gran lunga la sorpresa. Quindi percorro baldanzoso la passerella, che dal parcheggio in cima alla rupe conduce in basso verso l’oceano, finchè alle mie narici arriva un puzzo che mi è già familiare. Non ditemi che l’unico sentiero percorribile mi porta ad un'altra colonia di foche! L’unico animale che avevo già visto!


          E’ tutta questione di prospettive. Se ieri, o anche un mese fa, un anno fa, mi avessero detto: “Visiterai due colonie di foche.” sarei stato entusiasta. Adesso mi sento un po’ beffato dal destino. Scendiamo dalla macchina e ci infiliamo le giacche a vento immediatamente. Che sfortuna, piove! It's a hard life!Realizziamo che tecnicamente non è che stia proprio piovendo. La lingua di terra su cui camminiamo declina dolcemente verso il mare, formando un sottile promontorio scoglioso. La furia degli elementi ha scavato le rocce, creando un anfiteatro naturale dove riposano i pinnipedi. Le onde si infrangono sugli scogli, il vento forza 7 cattura gli schizzi e ce li sbatte in faccia parecchi metri più in alto. Il bello è che mentre le foche dormono pacifiche e rilassate, come se l’infuriare della natura non le riguardasse, gli sventurati umani devono ricorrere a impermeabili e cappelli per non inzupparsi, una battaglia comunque perduta.


          Nonostante il clima avverso siamo fra i temerari che tengono duro Clima mite e temperatoe scendono fino all’ Arco dell’ Ammiraglio. Bello, niente da dire. L’oceano ha scavato tutto sotto il promontorio, fino a sbucare dall’altra parte, formando un arco di rocce che dà il nome alla località. Praticamente abbiamo camminato su una striscia di terra sottile come una sfoglia, sopra uno strapiombo erto di rocce aguzze, in balia di vento e pioggia per vedere le foche da molto più distante rispetto a stamattina. Facciamo due foto ricordo e scappiamo via.


          The storm is coming..Ci tuffiamo in auto, finalmente al riparo dagli elementi. Prima di uscire dal parco prendiamo un altro sentiero, un po’ troppo scosceso per la trazione del nostro mezzo, ma almeno ci permette di godere la visuale del promontorio da posizione più elevata. L’immagine di Cape du Couedic, con il suo maestoso faro che si erge in mezzo al nulla, circondato solo da nuvole minacciose rimarrà scolpita nella mia memoria a lungo.

          mercoledì 15 aprile 2009

          Capitolo 25 L’accoppiamento del Platypus

          Dal parco delle foche ci muoviamo verso sud, in direzione di Flinders Chase. Il paesaggio è spettrale. Gli incendi hanno devastato la parte meridionale dell’isola, qualche solitario albero carbonizzato è quanto rimane di quello che poteva essere una rigogliosa boscaglia.
          Drammatico? In realtà, come mi spiega la Dott. Zecchin, "molti (purtroppo non tutti, visto che i recenti eventi hanno dimostrato che i piromani ci sono anche in Australia!) di questi incendi sono programmati e appositamente causati da quello che è l'equivalente del nostro Corpo Forestale. Ora, se si ha anche solo una minima idea del vento che spira costante in quelle zone, questa pratica può sconcertare parecchio. A quanto pare però anni e anni di esperienza hanno permesso ai rangers di capire quando, dove e come appiccare gli incendi, se vogliono che questi abbiano una funzione benefica per la natura, e non devastante. E benefica molto più che in altri ambienti, perchè qui il fuoco non solo fertilizza i terreni, ma soprattutto è elemento fondamentale per lo sviluppo di certe piante, che proprio dal fuoco dipendono per alcuni passaggi importanti dei loro cicli. Per es. la Yacca, buffissima pianta nota per il suo enorme ciuffo di foglie che ce l'ha fatta soprannominare "cugino It", con gli incendi sprigiona un gas che ne stimola la fioritura...madre natura è proprio incredibile! "
          Il parcheggio del parco è posto sotto a degli enormi eucalipti. Nonostante nuvole minacciose siano in arrivo dall’oceano, l’ombra delle fronde e la quiete del luogo formano il rifugio ideale per chi, come noi, è alla ricerca di un posticino tranquillo in cui consumare un modesto pranzo. Mentre Barbara si documenta sulle guide io vengo rapito dalla pace del luogo e, inclinato il sedile quel che basta, infrango il sacro silenzio che ci circonda con un russare misurato e armonico.

          Cape du CouedicPurtroppo tutti i momenti più belli sono destinati a finire, e Barbara, dopo aver mandato a memoria ogni singola riga sul parco, decide di porre fine alla mia pennica e di trascinarmi in mezzo alla natura selvaggia. All’ingresso perdo subito mia moglie, che mi lascia in coda a versare il giusto obolo e a larghe falcate si dirige verso il centro informazioni per riempire quelle poche lacune che lo studio compulsivo di otto guide le hanno lasciato. La ritrovo con un libro di piante locali, con cui certo non è entrata, mentre smanetta su di un touch screen di nozioni botaniche. Ora, l’intero concept del giro informativo è studiato per i bambini: i seggiolini sono ad altezza bimbo, le manopole e i pulsanti dei vari schermi sono colorate e accattivanti, le gigantografie dei dinosauri e delle piante sono sistemati all’interno di un piacevole percorso didattico immediatamente comprensibile ai più piccoli. Ed infatti, alle spalle della mia invasata consorte si è formata una coda di 10 – 15 scolaretti, ordinatamente in attesa che la bambina più grande ceda loro il posto.

          La strada principale del parco è anche l’unica che porti all’estremo sud dell’ isola. Da lì partono diversi percorsi tematici, ognuno dei quali ti permette di incontrare una particolare specie animale. Purtroppo la stagione degli amori e della deposizione di uova degli ornitorinchi è già iniziata, e, per motivi di privacy, il loro sentiero è chiuso. Ecco, lo sapevo. Se c’è un animale che ero veramente curioso di vedere, questo era l’ornitorinco. Già in natura è tutt’altro che facile osservarli, addirittura impossibile se non in questo continente. Arrivare in capo al mondo e trovarsi i percorsi a loro dedicati chiusi per accoppiamento è veramente una beffa.

          martedì 7 aprile 2009

          Capitolo 24 W la foca! (Non poteva che essere questo..)

          Incalzato dalle domande talvolta pertinenti della mia signora, il ranger ci confida che la manovra per avvicinare i turisti alle foche è iniziata negli anni ’70. Sono quasi quarant’anni da che hanno iniziato ad abituare queste simpatiche bestiole alla presenza dell’ uomo. Grazie a questo decennale percorso, noi, fortunati mortali, possiamo penetrare nel loro habitat senza infastidirle in alcun modo. Seal Bay Conservatory ParkCon la voce rotta dall’emozione Barbara prova a spiegarmi quanto un progetto di questo spessore scientifico sia assolutamente all’avanguardia (ma dai??) non solo per il nostro arretrato paese, ma probabilmente anche per altre realtà più, naturalisticamente parlando, avanzate. La bellezza struggente del paesaggio selvaggio e la magnifica esperienza che sto vivendo, mi portano a formulare quello che potrebbe essere un pensiero intelligente. L’osservazione e lo studio delle foche, delle balene, dei pinguini e i vari progetti di salvaguardia dei loro ambienti qui in Australia è partita prima rispetto ad ogni altro paese. Quando visiteremo l’isola delle tartarughe marine verremo informati che i primi approcci scientifici verso questi rettili risalgono addirittura ai primi anni ’50. Ma perché noi no? Perché noi non abbiamo mai messo in piedi opere di questo rilievo? Perché noi non abbiamo le foche! Semplice. Ma questa spiegazione non regge. La realtà è che negli anni ’50 avevamo ben altro a cui pensare. Non solo l’Italia, tutta l’Europa era da ricostruire. Non avere avuto la guerra sul proprio suolo ha permesso ad americani ed australiani di partire prima di tutti gli altri con i progetti di salvaguardia ambientale. E i risultati sono lì da vedere.

          Le foche giocherellano a non più di 5-10 metri da noi. I cuccioli dormono beati. Qualcuna, più audace, si getta nell’oceano alla ricerca di uno spuntino. Se proprio devo trovare una nota negativa, devo rilevare che l’odore di grasso di foca, unito a quello di pesce che il vento ci getta addosso non è proprio il massimo della vita.Family portrait with seagull Ma è un disagio veramente minimo rispetto allo spettacolo che stiamo vivendo. I maschi adulti litigano fra loro per la conquista di qualche femmina. Sono talmente presi dal ferormone che di sicuro non fanno caso a noi. Comunque preferisco allontanarmi, non sia mai che un maschio alfa dominante mi veda come una minaccia per il suo pinnato harem. Alle nostre spalle una mamma col suo cucciolo scende verso il mare per una rinfrescante nuotata. Siamo in mezzo alla sua traiettoria, quindi le cediamo il passo. Goffamente i pinnipedi passano tra di noi, mentre ne osserviamo il mantello, nuovo e lucente quello del cucciolo, screziato e segnato dalle mille battaglie in mare quello della madre.

          Lasciamo la spiaggia e riprendiamo il sentiero verso l’entrata del parco. D’un tratto le persone innanzi a noi tornano ad abbracciare le macchine fotografiche e si affollano verso un cespuglio. Immagino si tratti di un wallabee come quello che ho visto in precedenza, e mi sporgo curioso. Una specie di iguana, con un bel mezzo metro di coda lunga e dritta dietro di sé sfreccia in mezzo al sentiero e scompare dietro un masso. La guida, scocciata, ci invita a proseguire, in fondo “It’s just a lizard!” . Povero ranger, lavorare quarant’anni per portarci ad accarezzare le foche e poi vedere i tuoi turisti fotografare, con la stessa passione, una “semplice lucertola”. Rispetto il tuo punto di vista, e ammetto che un tale atteggiamento possa dare fastidio. E’ solo che una “semplice lucertola” di un metro io non l’avevo mai vista!