mercoledì 28 gennaio 2009

Capitolo 7 Very busy people.

Alla fine del nostro primo giorno on the road, arriviamo alla ridente località di Lorne. E’ un classico “posto davanti al mare” , uno di quei paesini accoglienti e pieni di vita durante l’estate, che irrimediabilmente si spengono appena si avvicina l’inverno. Noi la visitiamo all’inizio della bella stagione, i negozi sono aperti e c’è giusto un pochino di movimento. Soprattutto non c’è ancora traccia di surfisti.

Domanda: “Sembri contento di non aver visto nessuno praticare il surf nonostante ti trovassi in una delle zone più frequentate e rinomate per questo sport. Come mai?”

Risposta: ”Non è semplice rispondere a questa domanda, ma grazie per avermela posta. Da un lato sono dispiaciuto di non aver potuto osservare una delle peculiarità del luogo, un ritrovo spontaneo di appassionati da tutto il mondo che si sfidano, a colpi di tavola, lungo le meravigliose spiagge di questa zona. Dall’altro, se proprio devo osservare da vicino aitanti maschioni muscolosi, abbronzati, vistosamente tatuati e immersi nell’ agone sportivo, beh…diciamo che preferisco che non ci sia mia moglie!”

Great Ocean Road - Aireys Inlet

Al check in passiamo un momento non proprio felice. Viaggiamo con un pacco di voucher messo a disposizione dall’agenzia. Per ogni albergo in cui scendiamo lasciamo giù un voucher, la nostra prenotazione in pratica, con tanto di nomi, cognomi e il logo “Honeymooners” in bella vista.Appena lo leggono, il ragazzo e la ragazza caucasici, carini e abbronzati alla reception ci fanno un sacco di feste. Poi ci fanno una domanda che ci ammazza: “Siete qui in Australia e poi fate il giro del mondo?” Come, il giro del mondo? E’ già stato parecchio impegnativo raggranellare soldi e ferie sufficienti per venire fin qui, già ci baciamo ampiamente mani e gomiti, il giro del mondo è fuori discussione. Proviamo a spiegarlo ai due baldi giovini, e loro ci ghiacciano, in buona fede, per carità, ma ci ghiacciano con un’amara considerazione: “Ah, dovete essere persone MOLTO impegnate, very busy people, per avere solo tre settimane di ferie!”

Il fatto è che in Australia vige la cultura del walkabout, una sorta di viaggio iniziatico/mistico da compiersi preferibilmente soli e zaino in spalla. Si parte alla ricerca di se stessi. Si gira il paese, se non il mondo, fermandosi di quando in quando per lavorare, far su un po’ di soldi, ripartire. Sono viaggi che sai quando iniziano ma non quando e dove finiranno. E’ chiaro che ci ridono dietro quando sbandieriamo garruli le nostre sudate, benché misere, tre settimane di viaggio.
Corriamo in camera a smaltire il disagio causatoci dagli autoctoni. Come sempre non sappiamo cosa ci attende, dal momento che pernottiamo in posti prenotati dalla nostra agenzia sulla base di convenzioni sviluppate con il nuovo continente pressappoco all’alba dei tempi. Questa sera ci tocca un bel residence, piscina interna, sauna, parcheggio interrato e vista sull’ oceano, cosa che non guasta. Ma la vera surprise ce la riserva la stanza. Per una mera questione di praticità non abbiamo prenotato la suite imperiale in ogni singolo hotel. Anzi, possiamo tranquillamente affermare che la dimensione del Bed & Breakfast è stata la più gettonata durante il viaggio. Stavolta invece ci va di lusso. La stanza è ampia e spaziosa, un bell’angolo cucina, un salotto comodo, l’immancabile plasma con più pollici di quello che ho a casa, un bel bagno (senza bidet ovviamente!) e la camera da letto. Non mi serve controllare i millesimi per rendermi conto di quanto sia più grande del nostro appartamento a Padova. Sarebbe bello poterci passare il viaggio di nozze qui dentro, non solo una misera notte. E’ un mondo difficile.

L’unico particolare che non mi quadra è la bizzarra disposizione delle stanze. Il bagno dispone di una bellissima, e, come tale, immediatamente sfruttata, vasca con idromassaggio. Per raggiungerla si cammina lungo un corridoio, che passa sopra la cucina e si affaccia sul salotto tramite un’imprescindibile vetrata. Qui si riformula l’intero concetto di privacy. Di fatto, ci si può sdraiare pigramente sul sofà a guardare 90’ minuto, godendo nel contempo della vista del vostro coniuge che si fa una doccia. Comodo. Ancora più grottesca è la posizione della stanza da letto. Il sito che richiede più riservatezza ha le finestre che danno sul corridoio dell’albergo. Gli australiani non rubano. Da loro rubare è reato. Quindi non rubano. Lapalissiano. Questo corollario serve a spiegare perché le finestre di una camera d’albergo, in una località di mare, diano sul corridoio. Il fatto è che, se anche di notte ti venisse caldo e volessi spalancarle, puoi farlo tranquillamente, dal momento che nessuno si sognerebbe di entrare mentre dormi, e portarti via pure il cuscino da sotto la testa. Quanto al fatto che ognuno può farsi gli affaracci tuoi mentre sei in stanza…beh…ho già detto che il cesso da sul soggiorno? Ecco, appunto.

domenica 25 gennaio 2009

Capitolo 6 The Great “Windy & Flies Friendly” Ocean Road

Ho già detto che vivo in un mood tale per cui ogni cosa che vedo mi sembra meravigliosa? Ma per quanto uno si sforzi di mantenere un umore più che positivo, c’è sempre qualcosa che deve andare storto. Non è solo il concetto più famoso della cosiddetta Legge di Murphy. E’ un assioma, una verità assoluta. Nel nostro caso l’elemento di disturbo nei nostri primi movimenti lungo la Great Ocean Road sono state le mosche. Il sud dell' Australia è zeppo di mosche. Appena esci dalla macchina, ti assalgono in stormi, si posano in ogni dove e ti assaggiano senza ritegno. Drammatico. Il vento non le spaventa minimamente, ragione per la quale si genera un curioso paradosso: noi usciamo bardati fino al mento, con giacca, occhiali fascianti e berretto. Sui due centimetri di pelle che non proteggiamo dalla "brezza" oceanica, si danno appuntamento tutte le mosche del circondario. Ma che ci importa, sono mosche australiane, sopportiamo con un sorriso pure questo. Ecco, magari non un sorriso troppo aperto, altrimenti ci si infilano dentro!

Aireys Inlet lighthouseUn altro aspetto divertente, è che ci sono molti più cartelli stradali che non macchine. Gli australiani segnalano tutto, scorci panoramici, cittadine, fari, tutte le attrazioni che un turista potrebbe desiderare vedere, e lo fanno con grande anticipo e con dovizia di cartelli. Sembra quasi uno spreco, considerando che le automobili che incontriamo, in entrambi i sensi di marcia, si contano sulla punta delle dita. In ogni caso procediamo senza fretta verso Lorne, la nostra prima tappa, scegliendo random cosa vedere lungo il tragitto. Tendenzialmente scelgo i fari. Mi piacciono i fari, sono facilmente fotogenici e ce ne sono in abbondanza da queste parti.

KakatuaGrazie a questo sistema empirico, freccia a sinistra e svolta ad ogni segnalazione di faro, ci godiamo il bellissimo scorcio di Aireys Inlet. Barbara a momenti perde un orecchino, nel vano tentativo di sbarazzarsi di una mosca più invadente delle altre. Dall’ alto di un albero, un enorme pappagallo ci osserva divertito. Siccome in Australia sono molto più civili di noi, nei centri abitati non ci sono piccioni, bensì pappagalli. Di ogni specie, di ogni tipo e colore. Immaginatevi Piazza S. Marco a Venezia, con i turisti che danno il mangime ai pappagalli, invece che ai colombi. E’ tutto un altro mondo.

giovedì 22 gennaio 2009

Capitolo 5 Mr Ocean, I suppose!

Una volta usciti dalla città la situazione migliora. Le case iniziano a diradarsi, e con esse spariscono le macchine. Abbiamo la strada tutta per noi, guidare, seppure a destra, in queste condizioni non è così pesante. Eppure questo è l’ennesimo test per la mia forza di volontà. Come diceva il grande Lloyd Bridges in “L’ aereo più pazzo del mondo” , ho scelto il giorno sbagliato per smettere di fumare. Già dopo venti ore e passa di viaggio aereo, la coda alla dogana e il tragitto verso l’albergo con i vestiti da inverno addosso, mi sarei fumato una stecca di Marlboro rosse senza battere ciglio. Figurarsi guidare nel traffico cittadino di una metropoli, e andando in senso contrario! Sono stressato, cribbio!

Vezzoso copricapoPian piano inizio a rilassarmi. Mi concentro sul paesaggio. Le case in periferia assomigliano a quelle delle periferie americane immortalate in numerosi film. Basse e prefabbricate, con il loro giardinetto davanti e il posto auto in fianco. Prendiamo la M1 e procediamo per Geelong. La giornata è soleggiata, il vento porta con sé l’odore del mare. Non vedo l’ora. Non sono mai stato sull’oceano. L’ho attraversato in aereo, questo sì. Ma effettivamente non l ho mai visto. Non ho mai respirato la sua brezza, non ho affondato i piedi nella sua rena, non ho rabbrividito al contatto con le sue onde. Non voglio andare al mare. Voglio vedere l’OCEANO.

Il faro di Point LonsdaleQuindi Geelong non mi soddisfa. Sorge sulla baia di Melbourne, una baia chiusa, un mare interno, non va bene. Decido di proseguire per Point Lonsdale, che ,come dice il nome stesso, è la punta estrema di questo lembo di terra che separa la baia dall’oceano aperto. Deviamo un po’ dalla nostra rotta, ma è per una buona causa. Seguiamo le indicazioni per il faro. Questo tratto di costa è famoso per i naufragi che vi sono avvenuti. Le scogliere sono alte e scoscese, gli scogli nascosti ed infidi. Calcoliamo anche il generoso vento che soffia costante dall’Antartide e capirete come questo sia facilmente comprensibile. Ad ogni naufragio avvenuto, le autorità Australiane provvedevano a segnalare l’attracco pericoloso con un bel faro. Quindi: scogli, naufragio, faro. Scogli, naufragio, faro. Semplice. Tutte queste considerazioni scompaiono appena riesco ad inerpicarmi per il sentiero e a raggiungere la postazione. Eccoci. Finalmente. Sua Maestà l’Oceano!

lunedì 19 gennaio 2009

Capitolo 4: Guida a destra e altre amenità

E’ inutile negarlo. Sono nel panico. Vero. Mr. Hertz mi consegna le chiavi della mia nuova macchina, una Toyota corolla grigio chiaro, il nostro cocchio nel nostro tour nel South Australia. Uno dei parcheggiatori dell’autonoleggio mi sposta le macchine da davanti. Apro la portiera. Primo errore. Mi frega la forza dell’abitudine. Guida a destra, Nicolò, guida a destra. Entro dalla parte giusta. Meno male, il cambio è automatico. Un problema in meno, e neanche di poco conto. Metto in moto. Affronto la rampa. Raccatto mia moglie che mi attende trepidante sul marciapiede. M’immetto nel traffico di Melbourne. Tre milioni di abitanti che vanno in senso contrario al mio sapere. Sono teso come una corda di violino. Il problema grosso è azionare la freccia. E’ posta anch’essa specularmente rispetto a quanto appreso alla scuola guida. In pratica, ogni volta che devo effettuare un cambio di corsia, aziono immancabilmente il tergicristallo. E taglio la strada a chi mi segue senza dargli il minimo avviso delle mie intenzioni. Meno male che gli australiani sono cortesi e non mi insultano, almeno non palesemente. Sono teso. Stringo il volante con forza eccessiva e lancio sguardi disperati in ogni direzione. Sono in centro alla città , devo uscirne e raggiungere l’autostrada. Un gioco da ragazzi. Basta non svoltare a destra. La svolta a destra è il male assoluto. E le rotonde al contrario, l’equivalente della famigerata roulette russa. Che stress!

E’ che maschero bene. Retaggio degli anni dell’università, lo stress degli esami. Arrivavo in facoltà terrorizzato, coscienza sporchissima, preparazione lacunosa a dir poco. Poi trovavo i miei colleghi, i miei compagni di esecuzione. Ognuno tradiva la propria tensione in modo diverso. Quelli che fumavano una sigaretta dopo l’altra si trovavano in cortile, in qualsiasi stagione e con qualunque tempo. Quelli che per distrarsi devono parlare si riunivano in capannelli, pontificando su qualsiasi argomento. Ma i più temibili per me erano quelle, predominante maggioranza femminile!, che ripassavano in gruppo. Tu passavi vicino a uno di questi gruppi di studio last minute e l’angoscia ti coglieva immediatamente, assieme agli spezzoni di conversazione. Io, troppo orgoglione per mostrare la mia orrenda coda di paglia, ostentavo una sicurezza che non potevo possedere. Faccia da consumato giocatore di poker, muscoli tesi per non rivelare tremori indicatori, giravo fra i conoscenti dispensando tranquillità col solo mio incedere. “Ma come fai?” Era la domanda che più mi riempiva di ingiustificato orgoglio. Chiaro che poi i nodi venivano al pettine appena uscivo dall’aula, col mio bel libretto intonso e l’amara sensazione dell’ennesimo buco nell’acqua.

Questo è proprio ciò che sta accadendo ora. Devo manifestare una tranquillità che non possiedo per tranquillizzare mia moglie. Non devo darle segnali di non essere in grado di portare a termine la missione. Sono due giorni che non dormiamo all’idea di dover guidare. Cioè, in realtà non dormiamo bene perché il jet lag ci sveglia puntualmente alle 5 del mattino, che è un ottimo orario se vuoi veder sorgere l’alba sulle spiagge di un’isola tropicale, ma è fastidiosamente inutile se sei in una camera d’albergo umida ed afosa. Però, una volta svegli, l’idea di dover affrontare il traffico in un senso di marcia a cui non siamo avvezzi non facilita la ripresa del sonno. Barbara è completamente sepolta in una carta stradale, urla indicazioni sconnesse nel tentativo di farmi uscire dalla città svoltando solo a sinistra. In pratica, per uscire da Melbourne da Nord passiamo prima per tutti e tre gli altri punti cardinali.

mercoledì 14 gennaio 2009

Capitolo 3: Malintesi

Non sono preparato per questo posto. I mean: non sono preparato ad affrontare queste situazioni. I locali si rivolgono a tutti con un sorriso e un “How are you?” sincero. Questo sui depliants non c’era scritto. E’ una clamorosa usanza anglosassone che a scuola non ti insegnano e che le agenzie di viaggio omettono di dirti. Solo che, mentre a Londra e New York si limitano a chiedertelo e poi non attendono risposta, qui la esigono. E’ un buon modo per iniziare i tuoi viaggi all’estero con una profonda serie di figure di merda.

  1. Esempio: Albergo a New York. Già arrivi che sei suonato dal volo, hai trascinato le tue valige 5th Avenueper chilometri di hall, arrivi dall’ addetto e cerchi di far lo splendido con un amichevole “Good morning!” E già li ti inquadrano. Lui o lei, risponde con il meno formale “Hi!” . Poi ci attacca un “How are you?” inatteso che ti destabilizza. Allora provi a reagire, recuperi informazioni elementari che non credevi più di avere, e tenti l’interazione con un formalissimo “Fine, thanks, and you?” A quel punto l’addetto ha già controllato la tua prenotazione, ha chiuso il check in e ti ha lasciato sul bancone la chiave della tua stanza.

  2. Esempio: Albergo a Londra. Cerchi di far tesoro delle passate esperienze, come il computer di Wargames. Allora entri, London Callingaffronti deciso l’addetto e gli spari un cordiale “Hi!” in pieno viso. Lui, o lei, ti squadra malissimo, e risponde con un formale “Good Afternoon!” , mettendoci tutto il gelo della sua sfortunata, climaticamente parlando, isola. Se non altro a quel punto l “How are you?” salta per palese incomunicabilità, e si limitano a darti la tua chiave, disprezzando la tua famiglia fino all’ottava generazione.

  3. Esempio: Albergo a Melbourne. Tossisci un saluto sperando di limitare i danni. L’addetto sorride a trentaquattro denti, comunque, indipendentemente da quel che gli dici. E’ così. Saluta con “Hi!” se ti rivolgi a lui con “Hi!”. Con “Good morning, afternoon,evening, quel che è!” a seconda di come tu ti rivolgi a lui. Si adatta. Però sorridendo. E’ un’altra vita. Poi aggiunge l’ “How are you?” di pragmatica. Solo che per loro non è un pro forma. Attendono veramente una risposta e desiderano che tu lo chieda a loro. Al termine di questa breve cerimonia, quando ognuno dei due ha saputo come sta l’altro, si inizia a discutere seriamente.

Capirai! Io vengo da un paese dove, se il barista alla mattina ti fa un sorriso in più mentre ti versa il cappuccino, già ti viene voglia di saltare oltre il bancone e prenderlo a calci. Figurati se mi viene in mente di rispondere a quel che credo sia un “How are you?” buttato lì. Quindi vado avanti con le mie richieste, gettando nella costernazione i miei interlocutori. E’ chiaro che a Melbourne non mi sono fatto troppi amici, anzi.

martedì 13 gennaio 2009

Capitolo 2: A spasso per Mel

Ad essere del tutto sinceri, il primissimo impatto con la città non è dei migliori. Mai stato bravo nel primo approccio con le ragazze. Mel non fa differenza. A mia discolpa devo dire che un viaggio di 25 ore non ti mette proprio nelle condizioni migliori per apprezzare o farti apprezzare da qualcuno. Sono vestito in una curiosa meta via, avevo decisamente fresco per l’inverno patavino, ora ho decisamente caldo nella tarda primavera del Victoria. Mi sottopongo ad un girone dantesco nella forma di coda alla dogana aeroportuale. Gli autoctoni hanno fatto tesoro delle tragiche esperienze passate e ora controllano che nel loro paese non entri nulla di pericoloso per la loro flora e fauna. Quindi si passa senza fallo per la quarantena, un giro per un paio di affollati corridoi in compagnia di varia umanità, di ogni genere di etnia e provenienza, che con te condividono la stanchezza di viaggi di durata geologica e un curioso odore di selvatico causa assenza di adeguate docce sui voli intercontinentali. Fortunatamente la ragazza che esegue lo scanning delle nostre valige non trova nulla di compromettente e ci permette di sbarcare sul prezioso suolo australiano. E’ fatta. Ci imbarchiamo su di uno scomodo shuttle e ci facciamo portare in città.

Scendiamo all’hotel e ci concediamo una lunga e rinfrancante doccia. Il letto è una tentazione troppo grande cui resistere, però facciamo violenza alle nostre povere membra e usciamo. E’ qui Kids playingche iniziamo ad apprezzare la città. Passeggiamo senza una meta per le vie, seguendo il flusso degli abitanti. La giornata è calda e soleggiata, ma la brezza che arriva dall oceano la rende oltremodo gradevole. L’impatto con la lingua è meno cruento del temuto. Non è che non sappia l’inglese…è che non lo parlo. Non ne ho mai modo. Così ogni volta che vado all’estero ci metto due o tre giorni a mettermi nell’ordine di idee di doverlo capire ed usare. Quindi, quando ci troviamo a dover interagire con i locali, io colgo metà delle informazioni forniteci, mia moglie l’altra metà. Dobbiamo necessariamente essere in due per portare a termine qualsiasi impresa, dal check in all’albergo al semplice prendere un caffè al bar. Per fortuna a Melbourne c’è una tale varietà di razze e popoli che l’inglese che si parla è quanto di più vicino alle blande lezioni apprese al liceo.

La cosa più impattante del viaggiare con una biologa (anche dello sposare una biologa, se vogliamo!) è che in qualsiasi situazione lei tende al verde. Ciò significa che, anche nel mezzo di una metropoli di quattro milioni di abitanti, lei accende il radar per i parchi e le zone naturali e riesce sempre a trascinarmici. In Australia questo scherzo trova terreno oltremodo fertile, dacché le città sembrano costruite in mezzo al verde e ne sono addirittura compenetrate. Gli abitanti di Melbourne escono dai loro grigi uffici e si portano il pranzo in una di queste aree verdi. Affondano i piedi nell’erba e si godono la madre di tutte le pause dallo stress e dal lavoro, in compagnia dei numerosi e variopinti uccelli, delle libellule e delle farfalle. La cosa che si avvicina di più alla concezione di Paradiso secondo Barbara.

Sk8ersScendiamo lungo l’argine del fiume Yarra e ci addentriamo nei giardini della regina Vittoria. Sono in un curioso mood che definirei come “tutto ciò che trovo è bello e particolare, poiché sono in Australia”. Ergo fotografo tutto ciò che si muove, colto da un qualche tipo di delirio. Le mie prime “vittime” sono un branco di skaters. Mezzo minuto dopo mi esalto nello scoprirmi a pochi metri di distanza dalla Rod Laver Arena, il tempio del tennis australiano. Mi ostino nel tentativo di fare una decente macro di una delle tante libellule, rimanendo oltremodo frustrato nel non riuscirvi. Laughing KookaburraPoi accade una cosa bella. Scorgo su di un ramo un uccello mai visto che per mole soverchia tutti gli altri volatili nelle vicinanze. Se ne sta li quieto a godersi il sole primaverile. Mi avvicino il più possibile, sono dannatamente allo scoperto!, e lo inquadro nel teleobbiettivo. Dopo alcuni giorni ho scoperto che avevo fotografato un Laughing Kookaburra, uno dei simboli di questo paese, assieme a canguri e koala. E io manco lo sapevo. E l’ho fotografato per caso il primo giorno. Quel che si dice partire col piede giusto!

mercoledì 7 gennaio 2009

Capitolo 1: MELBOURNE

Mi innamoro appena scendo dall’aereo. E’ triste da dire, in fondo sono in viaggio di nozze. Tutto il mio affetto dovrebbe riguardare la ragazza bionda e magra che mi accompagna. Eppure è andata proprio così. Mi innamoro di Mel appena la vedo. Non posso farci niente, deve essere l’aria di queste parti. Più che l’aria, il vento. Mel è Melbourne secondo gli australiani. Anzi, gli aussies, per essere precisi. In Australia abbreviano tutti i nomi, per comodità.

Avviso ai naviganti: la cosa che più mi ha colpito del viaggio di nozze nel downunder è stata la gente che la abita. Prima ancora dei posti fantastici che ho visitato, prima ancora dei curiosi animali che ho potuto ammirare, ripeto che a farmi rimpiangere più di tutto il mio rientro in patria è stato la gente che ho incontrato. Gentili, simpatici, ultra disponibili. Soprattutto l’impressione che ne ho ricavato è stata quella di un popolo che affronta la vita con zero stress. Questo concetto lo ribadirò, temo, più di una volta in questo diario di viaggio. Io metto le mani avanti, voi portate pazienza. Chiudo!

Melbourne SkylineTornando alle abbreviazioni, se Melbourne è Mel, Sydney diventa Syd. Lo stato del Victoria diventa Vic e Adelaide, ovviamente, Ade. Il bello è che non sono gli stupidi soprannomi che si danno al liceo e con l’età per fortuna svaniscono. Qui sono proprio di uso comune. Il concetto che passa è che per gli australians, scusate, aussies, la vita è troppo breve per perdersi in nomi troppo lunghi e altisonanti. Quindi abbreviano. No worries mate!

Mel(bourne), con i suoi quasi quattro milioni di abitanti, è la seconda città più popolosa d’Australia, seconda solo a Sydney, con la quale vanta una storia di rivalità e inimicizia a cui magari accennerò più avanti. Di fatto Camberra è la capitale ma non se la fila nessuno. Sydney è più grande e più bella ma anche più sporca e disordinata. Si vede che non hanno mai visto Padova. Melbourne è più piccolina, ma è più vivibile e ordinata. Questa è l’opinione che ne hanno gli stessi australiani, e io mi ci accodo volentieri. Del resto è facile farsi quest'impressione appena si comincia a girere un po' la città.

Newlyweds in MelbourneI suoi fondatori provenivano dalla Tasmania. Trovarono questo posticino sulle sponde del fiume Yarra, presero un righello bello grande e iniziarono a tirare le strade, da est a ovest e da nord a sud. Su questo meticoloso reticolato si è sviluppato,con il passare degli anni, un sistema tramviario d'eccellenza che collega ogni cantone della metropoli in maniera pratica e veloce. C'è persino il tram per andare al mare! Il giovane abitante di Melbourne parte da casa con il suo zaino di libri, il costume sotto le braghette, le infradito d'ordinanza e la tavola sottobraccio. Prende il suo tram e raggiunge la facoltà , qualunque essa sia è ovviamente all'avanguardia, si fa le sue due o tre orette di lezione, poi monta su un altro mezzo, si fa scaricare in spiaggia e conclude la giornata surfando e polleggiando con le coetanee. Quando ha finito un altro tram lo riporta a casa. Che brutta vita!

venerdì 2 gennaio 2009

PROLOGO

Sabato 08 Novembre. Stadio “Euganeo” di Padova. Ore 15.00.


Lo stadio è gremito. L’occasione ha radunato gli appassionati della palla ovale da ogni parte dello stivale. Il Veneto si considera, giustamente, la culla di questo sport, e oggi lo dimostra al mondo intero. La festa è già iniziata da ore. Oggi è il giorno dei bambini e delle donne. Al contrario di quanto sStade Velodrome, Marseilleuccede per altri sport sopravvalutati, lo stadio oggi è un posto tranquillo e sicuro. Bambini di ogni età scorazzano per le gradinate vestiti con le maglie dei loro club. Ex giocatori, segnati prima nell’anima che nel fisico dall’amore per questa ruvida disciplina, seguono le fasi di gioco e le spiegano alle mogli, fra un sorso e l’altro dell’ immancabile birra. La banda attacca le prime note dell’inno di Mameli. Mi stringo agli amici, una mano sulla spalla del vicino, la destra sul cuore. Cantiamo a squarciagola. Ogni volta è un’emozione fortissima. Una magia che si ripete solo prima di una partita di rugby. E stavolta ho deciso di condividerla con la donna che fra meno di tre settimane diventerà mia moglie.

Barbara canta sicura le due strofe. Le luccicano gli occhioni azzurri. Sta cominciando a capire perché a volte ho dovuto abbandonarla per seguire la nazionale nei suoi impegni. Inizia a capire perché questo sport mi è entrato dentro. Forse ne è addirittura un po’ gelosa. Ma non oggi. La partita inizia. Gli Aussies sono fortissimi, in teoria non dovremmo nutrire alcuna speranza. In realtà il match è in equilibrio. Spinta dall’entusiasmo del pubblico l’Italia spaventa i maestri australiani e li costringe agli straordinari. La meta di Mirco Bergamasco, uno dei tanti enfants de pais azzurri, scatena il delirio sugli spalti. Per un attimo l’Australia è alle corde. I due volte Campioni del Mondo faticano a ritrovare il bandolo della matassa. Ci vuole un piccolo aiuto dell’ arbitro per rimetterli in carreggiata e permetter loro di portare a casa la partita. Purtroppo sono cose che capitano. Nel rugby l’arbitro con le sue decisioni, giuste o sbagliate che siano, fa parte del gioco, come le mischie e i rimbalzi irregolari del pallone. Non c’è spazio per recriminazioni o risentimento, ed è giusto sia così. Quindi ci uniamo idealmente ai nostri giocatori nel tributare un applauso ai nostri avversari mentre escono dal campo.

I bambini invadono il campo a caccia di preziosi reperti. E’ in questo momento che accade qualcosa di straordinario. I giocatori dell’Australia hanno terminato il loro giro di campo, hanno salutato i loro supporters e stretto le mani ai loro rivali odierni, in attesa di ritrovarli per il famoso Terzo Tempo. Quelli che sono scesi in campo raggiungono gli spogliatoi per una doccia rinfrancante. I componenti della panchina, invece, ritornano alla stessa. Lote Tuqiri, la gigantesca ala di origine Figiana, uno dei giocatori più famosi e rappresentativi dei Wallabies, raccoglie un cesto delle immondizie e si sposta con esso, mentre i suoi compagni si danno da fare a raccogliere le cartacce e le bottiglie d’acqua che hanno utilizzato durante il match, e a gettarle via. Io e Barbara assistiamo a questo prezioso esempio di civiltà e applaudiamo convinti, assieme a tutto il nostro settore. Il nostro viaggio di nozze in Australia, il sogno di una vita per entrambi, si apre con questa spettacolare preview. Quali altre sorprese ci riserverà questo popolo meraviglioso?