lunedì 29 giugno 2009

Capitolo 33 Piove sul centrale.

Per fortuna il giorno dopo dobbiamo solo svegliarci all’alba. La lotta notturna fra la pizza e le nostre viscere alla fine ha visto spuntare queste ultime, ma la pugna è stata lunga e faticosa, e quando il sole sorge e la sveglia chiama, sui nostri volti è facile leggere un profondo scoramento. Non c’è nulla da fare, anche a migliaia di chilometri da casa non c’è nulla che mi rompa le scatole quanto svegliarmi presto alla mattina. Che si tratti di recarmi al lavoro, o in aeroporto a continuare il viaggio più bello mai intrapreso, io odio sentire la sveglia. E’ più forte di me. A maggior ragione dopo una nottata di lotte intestine, termine non utilizzato a caso. Conscia di questo mio lieve difetto di personalità mia moglie mi spedisce alla reception, in modo che possa sfogare il mio malumore sul portiere, mentre lei dà inizio ad un’ampia operazione di restauro facciale.

Recuperiamo l’auto e ci dirigiamo alla volta dell’aeroporto. Da che siamo atterrati in questo paese ci siamo abituati a dimensioni esagerate in ogni contesto, quindi non mi preoccupo troppo quando il mio navigatore satellitare biondo non mi indica tempestivamente la prima entrata utile per gli imbarchi. Bene, ci saranno altre occasioni immagino. E invece no. Dai finestrini vediamo sfilare l’intero complesso aeroportuale senza potervi accedere in alcun modo. Sono le ultime baruffe con il sistema di guida all’inglese, una volta superato lo scoglio dell’inversione di marcia e dell’ unica entrata disponibile ci tocca riconsegnare la fida autovettura al signor Hertz. E sono lacrime e stridore di denti, non solo perché ci separiamo da qualche centinaio di dollari australiani, ma anche perché ormai ci si era affezionati al veicolo. Ovviamente non si è fatto a tempo a darle una frettolosa pulita, quindi da sotto i sedili recuperiamo in velocità le mille bottigliette d’acqua sparse e le altre carabattole e raggiungiamo il check in.

Il nostro aereo ci porta all’ interno del continente, precisamente ad Alice Springs. Siccome siamo in pieno deserto è abbastanza inconsueto che appena il carrello si posa al suolo si scateni un furioso temporale, costringendo uno stuolo di hostess Quantas a venire a prenderci con gli ombrelli. Due ore di attesa fra un volo e l’altro, due ore di tuoni e lampi. Giriamo per il microscopico aeroporto fino a stufarci di vedere i più clamorosi esempi di arte aborigena falsa sparsi ovunque nelle poche boutiques. Molto più coinvolgente è incontrare per la prima volta dei veri aborigeni, intere famiglie che attendono il nostro stesso volo per tornare a casa. Il temporale non ci dà tregua nemmeno all’imbarco e ci segue fino ad Ayers Rock. Mezz’ora di tragitto col naso incollato al finestrino, a vedere l’acqua raccogliersi in tanti ruscelli istantanei e percorrere una terra rossa come fuoco, rossa come i campi da tennis che calpestavo con disarmante agilità da ragazzo, o che meno prosaicamente osservavo in tv. E’ proprio questo il paragone più immediato che mi affiora vedendo lo spettacolo che si delinea sotto la fusoliera del velivolo. I campi da tennis del Roland Garros. La voce di Rino Tommasi che descrive la pioggia sul centrale parigino. Solo che nella capitale francese le gocce d’acqua non cambiano il paesaggio radicalmente come avviene qui. Sotto di noi il deserto prende vita. L’ acqua risveglia le piante nascoste sotto la dura scorza del deserto, e laddove corrono i torrenti è tutto un fiorire e un germogliare di verde, di ogni forma e dimensione, acceso e violento come il rosso della terra con cui contrasta. E’ uno spettacolo magnifico, e sono quasi dispiaciuto di dover atterrare.

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