Quando descrivono il South Australia come una regione desertica non esagerano. Il sole picchia duro da queste parti, e le nostre scorte d’acqua vengono attaccate con più veemenza del solito. Tutto suggerisce un’ insopportabile idea di arsura: lagune prosciugate e biancheggianti di sale, pascoli di erba gialla e accecante, il silenzio degli animali nascosti durante le ore più calde, le spoglie di alberi secchi e bruciati abbandonati nella pianura. Grande quindi è lo sbalordimento quando incontriamo un solitario viandante alle prese con il suo personale walkabout. Il termine walkabout ("cammina in giro") si riferisce al lungo viaggio rituale che gli aborigeni saltuariamente intraprendono attraversando a piedi le distese del bush australiano. In tempi recenti il termine si associa al viaggio alla ricerca di sé stessi, che chiunque può compiere in qualsiasi momento della propria esistenza. Ecco, probabilmente io non cercherei me stesso camminando sotto il sole cocente del deserto, però ho troppo rispetto per questa cultura per mettermi a discutere.
Arriviamo a Cape Jervis dopo un pranzo leggero all’ombra degli eucalipti. Siamo in anticipo rispetto al traghetto per Kangaroo Island, abbiamo tutto il tempo di farci un bel giretto al faro e di dare un’occhiata ai depliants dell’isola, per farci l’idea di cosa ci aspetta nei prossimi giorni. Poi, finalmente, arriva il momento di salpare. Essendo la prima volta che ci cimentiamo con l’oceano decidiamo di non farci mancare nulla, soprattutto in termini di vento e di onde. Affrontiamo la traversata rigorosamente in coperta, come i comandanti dei secoli scorsi. La tramontana mi azzanna la faccia, cosa darei per avere un timone, anche finto, meglio finto!, e affrontare la pugna stretto al suo duro legno, non ad una fredda e impersonale balaustra. L’oceano Indiano è scuro come pece, le sue onde spazzano senza sosta la chiglia dell’incauto traghetto, dal ponte osserviamo con trepidazione la terraferma che ci aspetta e sembra non avvicinarsi mai. Ma come tutte le più belle cose, anche questa tranquilla gita in barca finisce.
Recuperiamo la nostra fidata vettura e ci dirigiamo verso Kingscote, la cittadina più grande dell’isola, nonché l’unica dotata di struttura alberghiera atta ad ospitarci. Dobbiamo affettarci perché il sole sta per tramontare e l’unica strada dell’isola corre in mezzo a prati selvaggi e boschi inospitali. Il telefono cellulare su quest’isola non è ancora giunto, cosa che mal si concilia con l’eventualità di avere incidenti o contrattempi di qualsiasi tipo lontano da un centro abitato. Da un lato quindi è opportuno spingere sull’accelleratore per coprire rapidamente la distanza che ci separa da un meritato riposo. Dall’altro è consigliabile fare attenzione a quel curioso animaletto che da il nome all’isola, e che a quest’ora scorazza in giro per sgranchirsi le zampette. Alla fine tutto va per il verso giusto, e la frenetica giornata, in cui abbiamo attraversato deserto e saline, oceani tempestosi e selvagge praterie, volge al termine con un freddo ma coreografico tramonto. E’ la prima immagine che abbiamo dell’isola. Poi un ombra oscura per un attimo il sole morente. Un’ eclisse? Un jumbo 747? Meglio! Un pellicano.
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