giovedì 19 marzo 2009

Capitolo 20 James Cook mi fa un baffo! Part 1

Da piccino mi esaltavo leggendo le avventure dei grandi esploratori. Del resto, a chi non è capitato? Si parte dai romanzi di fantasia, Salgari, Verne e compagnia. Poi si abbandonano i personaggi inventati e si passa a quelli reali. Colombo, l’orgoglio italiano, e la sua scoperta delle Americhe. Magellano, il mio personale preferito, e il suo tracciare nuove rotte. La commozione per l’incontro fra Stanley e un ormai anziano Livingstone. E naturalmente i viaggi di James Cook. Oggi, nel suo nome, affronteremo la traversata dell’oceano, in direzione dell’Isola dei Canguri, che sarà la nostra base operativa per un paio di giorni. L’idea mi eccita non poco. Nella mia mera esistenza si contano sulle dita di una mano le occasioni in cui mi è capitato di affidarmi ai servigi di una nave. E in tutti i casi le esperienze sono state poco esaltanti.

La prima volta avevo sette anni, e i miei genitori mi trascinarono all’isola d’Elba. Le ingiallite diapositive che testimoniano la traversata del tranquillo mar Tirreno, immortalano me e mia sorella Silvia in condizioni pietose, bianchi come cenci e provati dai continui e irrefrenabili rovesci di stomaco patiti. Chi poi è un marinaio scafato sa bene qual è l’importanza di un Giona in un viaggio in mare. E’ stato questo il mio ruolo in una breve gita fuori porto, parecchi lustri orsono. I miei zii e cugini veleggiavano su quel due alberi da anni, e mai un imprevisto, un’ incidente, mai nemmeno un’insolazione. Con me a passeggiare garrulo sul ponte iniziarono a verificarsi sinistri episodi. Il Rolex di mio zio, passato attraverso le generazioni con epopee degne di Christopher Walken in Pulp Fiction, volò oltre il parapetto nello sciogliere la prima cima. Il motore, fresco di revisione ma, ahimè!, non di rinnovo assicurativo, ci piantò in asso senza preavviso nel bel mezzo della gita. Non esagero nell’affermare che la mia seconda esperienza su una barca stava per finire con due pesi alle caviglie e l’Adriatico sopra di me. Potrei continuare, ma penso di aver reso l’idea e non vorrei dilungarmi oltre.

Pur di non affrontare le manovre di imbarco sul traghetto, Barbara si sciroppa volentieri i 385 km che separano Robe da Cape Jervis, il nostro punto d’attracco. Non propriamente una passeggiata. Partiamo alla mattina presto, e il vento che si leva dall’oceano ci spinge a vestirci parecchio, anche in previsione della traversata. Durante la giornata però il barometro vira verso “caldo fisso”, e in macchina ci sciogliamo gradualmente. Sunday morning walkIl paesaggio poi non aiuta: ..per quel tratto di strada devastante, solo saline a sinistra e campi gialli a destra, e sole sole sole e nessuna nuvola...eravamo vestiti troppo, le prima ore siamo morti dal caldo e io mi sono ustionata il braccio che stava dalla parte del finestrino mentre guidavo e facevo fatica a tenere gli occhi aperti tanto era il riflesso. (Barbara original!!) Risultato? Abbondante cremina idratante sul braccio offeso e secchiate di collirio sugli occhi irritati.

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