Non è semplice parlare di questa parte di viaggio, i sentimenti sono contrastanti e non sono ancora riuscito a trarne un bilancio conclusivo. Ma andiamo con ordine. Il pulmino di raccordo ci trasporta dal minuscolo aeroporto all'area resort, questo mega complesso nei pressi del Parco Nazionale Uluru-Kata Tjuta dove hanno concentrato, in una specie di residence sotto stretto controllo degli impatti ambientali, tutte le possibili forme di servizio per i turisti, alberghi più o meno di lusso, campeggi, ristoranti, negozi. Al di fuori di quello, solo gli ululati dei dingo, la luna e il deserto.
Veniamo smistati alla nostra camera, dove approfittiamo dei tre giorni di sosta nello stesso luogo( mai successo!) per fare un po’ di bucato e una doccia rinfrancante. Ovviamente nel momento di maggior insaponamento inizia a suonare l’allarme antincendio, e mi tocca correre fuori vestito di solo asciugamano, suscitando il ribrezzo di una coppia di giapponesi. Il problema è che dopo giorni di viaggio in località deserte, trovarsi nel deserto ma circondati da turisti di ogni nazionalità ci spiazza.Non sono più abituato a tanta gente nei bar, nei negozi,ovunque. E dopo solo poche ore già ho un forte impulso a tornare alla mia auto a nolo e alle mie strade sgombre del sudest australiano. A distrarci da questa condizione di autoflagellamento misantropo giunge inaspettato un magnifico tramonto, che squarcia le nubi temporalesche e ci invoglia ad una passeggiata fino al punto panoramico subito fuori dal resort. Qui abbiamo il primo contatto visivo con la montagna sacra, incendiata dagli ultimi sprazzi di sole e con il sottofondo degli uccelli che si riaffacciano dai nidi dopo l’acquazzone. Che dire? Semplicemente un’ esperienza mistica.
Un’altra esperienza mistica la facciamo al ristorante. Circondato da uno stuolo di cameriere poco più che ventenni rischio una punizione biblica da parte della mia neosposa nel caso il mio approcciare non si limiti al puro ordinare. Sono vietati di conseguenza l’ammiccare, il sorridere idiota e soprattutto il lasciare un feedback positivo alla più carina nei vari questionari sparsi un po’ ovunque. E’ in questa fase che odo una delle domande più orrende e fastidiose all’orecchio che possa capitare di sentire all’estero: “Ah, ma voi siete italiani?” . Capita infatti che al tavolo di fianco si radunino un po’ di compatrioti, e ci tengano a sottolinearlo al resto del mondo. Facciamo un altro po’ di qualunquismo becero e razzista: sono poche le popolazioni immediatamente riconoscibili al di fuori dei loro confini. Giapponesi e cinesi è semplice individuarli. Il tedesco si intuisce spesso dall’abbigliamento, tipo il sandalo col calzino. Italiani e spagnoli gridano.
E si riuniscono. Differenze regionali insormontabili all’interno dei patri confini si dissolvono in salde amicizie non appena si rende necessario l’uso del passaporto.
Così microtavoli di coppiette in viaggio di nozze evolvono in macrotavolate interregionali, dove il tono dei discorsi verte su amenità del tipo:
1. “Ah, è un mese che parliamo solo inglese, quant’è bello poter riparlare italiano!”
2. “Il deserto? Bello, ma pensavo facesse più caldo!”
3. “Tra poco è Natale, ma come fai a sentirlo qui che è primavera?”
2. “Il deserto? Bello, ma pensavo facesse più caldo!”
3. “Tra poco è Natale, ma come fai a sentirlo qui che è primavera?”
Brrr…per fortuna io e mia moglie siamo di carnagione cadaverico/vampiresco anche dopo settimane di sole australe, quindi nessuno si sogna di identificarci per dei compatrioti, e di invitarci all’italica riunione. A testa bassa guadagniamo l’uscita e scivoliamo nell’oscurità.